Mi ero ridotto a una vita quasi vegetativa: ma non animalesca. Leggicchiavo un poco, pregavo, passeggiavo abbondantemente in mezzo alle floride campagne (era di maggio), contemplavo beato le messi folte e verdi screziate di rossi papaveri, le file di pioppi che si stendevano lungo i canali, i monti azzurri che chiudevano l’orizzonte, le tranquille opere umane per i campi e nei casolari.
Una sera, anzi una notte, mentre aspettavo il sonno, tardo a venire, seduto sull’erba di un prato, ascoltavo le placide conversazioni di alcuni contadini lì presso, i quali dicevano cose molto semplici, ma non volgari né frivole, come suole accadere presso altri ceti. Il nostro contadino parla di rado e prende la parola per dire cose opportune, sensate e qualche volta sagge. Infine si tacquero, come se la maestà serena e solenne di quella notte italica, priva di luna ma folta di stelle, avesse versato su quei semplici spiriti un misterioso incanto. Ruppe il silenzio, ma non l’incanto, la voce grave di un grosso contadino, rozzo in apparenza, che stando disteso sul prato con gli occhi volti alle stelle, esclamò, quasi obbedendo ad una ispirazione profonda: «Com’è bello! E pure c’è chi dice che Dio non esiste».
Lo ripeto, quella frase del vecchio contadino in quel luogo, in quell’ora: dopo mesi di studi aridissimi, toccò tanto al vivo l’animo mio che ricordo la semplice scena come fosse ieri.(…)
Quel contadino umbro non sapeva nemmeno leggere. Ma c’era nell’animo suo, custoditovi da una vita onesta e laboriosa, un breve angolo in cui scendeva la luce di Dio, con una potenza non troppo inferiore a quella dei profeti e forse superiore a quella dei filosofi’.
Uno degli scopi, neanche troppo nascosti, del sistema educativo moderno è stato quello di vanificare e far scivolare nell’irrilevanza il deposito di sapienza che la stratificazione di pratiche millenarie, di confronto con il reale e di osservazione attenta della natura aveva costruito e che rendeva quel contadino umbro padrone di una capacità di approfondimento, di una cultura ‘forse superiore a quella dei filosofi’.
Rimandiamo ad altra sede le ragioni storiche e politiche di questo attacco violento alla cultura materiale; qui basti ricordare che in Italia, rispetto ad altri luoghi del mondo, questo attacco è stato più virulento e sanguinoso per il maggior spessore della sapienza che si voleva debellare e per il più recente inizio della guerra.
La guerra, come spesso capita alle guerre, ha distrutto i vinti ma ha lasciato i vincitori esangui e stremati ed ora i vecchi vincitori si guardano attorno smarriti non capendo cosa sia successo: ‘Ma non avevamo vinto? Perché non raccogliamo i frutti della nostra vittoria? Perché nessuno ci ama? Perché questi beoti si ciucciano il Grande Fratello?’.
Fuor di metafora, svuotare le campagne dai contadini dopo aver svuotato di senso e irriso le loro pratiche millenarie, ha creato una massa enorme di popolazione inurbata che, se fino a quaranta anni fa ha potuto (giustamente) gioire di una vita più comoda e sicura, ha poi messo al mondo una generazione di figli e nipoti che non provano nessuna attrazione per la cultura estranea e visibilmente priva di anima che ricevono a scuola (la crisi educativa) e che vagamente si rende conto che il nonno, alla loro età, nei campi, metteva molto più a frutto i suoi talenti e la sua intelligenza di quanto non succeda a loro, con una laurea in mano, di fronte ad un PC a rimasticare procedure vuote e che non richiedono nessun intervento creativo e nessuna partecipazione. Ma questa angoscia (giusta) ancora si esprime nelle domande sbagliate e se i ragazzi scendono in piazza per difendere ‘la cultura’ indossando, a mo di ‘uomo sandwich’ come si diceva una volta, titoli di libri provenienti dalla cultura togata di cinquanta anni fa (che è proprio la responsabile della loro alienazione) allora vuol dire che ancora non ci siamo.
D’altro canto i vincitori riescono, solo a duro prezzo e in casi piuttosto rari, a recuperare il senso della loro cultura e, come Enrico Fermi che si ritrova nei campi a ricercare ‘il bandolo della matassa’, debbono prima attraversare il lungo e buio corridoio della vanagloria, della libido dell’intelligenza onnipotente, per riuscire solo alla fine del tunnel a ‘riveder le stelle’ ed a risuonare con il mondo insieme al contadino umbro, un giro lungo (e necessario) per tornare al punto di partenza.
Lungi da me il dire che questo giro sia stato inutile. Nel giro l’umanità avrà scoperto la meccanica statistica, avrà trovato gli antibiotici per salvare milioni di vite, avrà sanato mille ingiustizie, ma questo è avvenuto ‘prima’; ora siamo di fronte alla necessità di ripartire dal cielo stellato, di ridare senso all’impresa. Ora siamo di fronte al ‘lato B’ del progresso: inquinamento, alienazione, epidemia di malattie psichiatriche, paura del mondo, rabbia.
Il mondo però va salvato e, come nell’apologo di Enrico, io credo che nella migliore posizione per salvarlo siano proprio contadini e scienziati che in maniera differente sono le categorie che hanno ancora accesso al ‘cielo stellato’, cioè alla contemplazione del creato. Troppe scorie, troppa ideologia, troppo rancore, troppo pensiero automatico, si è depositato sulla carcassa della giurisprudenza, delle scienze sociali, della letteratura e (ahimè) dell’arte. Ma la necessità del ‘Km 0’, di rimettere a frutto le campagne in tempi di crisi, dei Gruppi di Acquisto Solidale (i cosiddetti GAS che si stanno lentamente ma sicuramente sviluppando nel nostro paese riallacciando direttamente produttori e consumatori), la necessità economica di puntare su produzioni di eccellenza che uniche possono dare un senso alla messa a coltura delle nostre colline, stanno facendo acquisire rinnovata dignità e centralità al lavoro dei campi. Il triste fallimento operativo della tecnoscienza sta stimolando gli scienziati a ripartire dall’osservazione del reale, dalla contemplazione della natura, ancora una minoranza certo, ma una minoranza agguerrita e consapevole che non si accontenta delle balle del ‘transumano’, del ‘potenziamento cognitivo’ e della ‘vita artificiale’.
Bisogna essere vigili però, i rischi di confondimento, le tentazioni, in una parola la menzogna, è lì, sempre pronta; bisogna sperare e fidarsi della realtà, di ciò che tocchiamo con mano e di ciò che vediamo nella ‘maestà serena e solenne della notte italica’.