La pretesa di eliminare ogni rischio è non solo irrealizzabile, ma ci rinchiude in un recinto in cui è interrotta ogni comunicazione. La paura paralizza e spegne ogni dimensione di progettualità, scava fossati, erige muri. Di qua e di là dai muri solo la speranza ci può far vedere negli “occhi traboccanti di lacrime” non potenziali nemici, ma Cristo Risorto ci attende e ci interpella

“Chi si è bruciato col latte bollente, vede la mucca e piange”, così recita un detto popolare argentino richiamato da Papa Francesco in una delle sue omelie a Santa Marta (24/04/2014), per spiegare la paura dei discepoli, che, “scottati” dal fallimento del loro Maestro, sono incapaci di riconoscerlo nel Cristo Risorto.

Di fronte agli eventi tragici e violenti di questi giorni questo proverbio suona un po’ troppo scanzonato, il dolore e il disorientamento che colpiscono tutti sono drammaticamente seri e reali, come lo sono i morti e la consapevolezza della nostra vulnerabilità.

Eppure, nell’immagine che descrive la reazione al male – il pianto impaurito di fronte ad una mucca – il proverbio rimane pertinente, perché con semplicità dice quello che accade quando guardiamo con gli occhi della paura: una mucca si trasforma in drago.

Le ferite sono reali, ma la paura distorce l’individuazione della causa e anche la ricerca di una cura. La paura insinua un sospetto generalizzato che ci rende diffidenti, chiusi. Non siamo più capaci di fiducia.

Il controllo si presenta come l’unica via per difendersi e sentirsi sicuri, ma, per un singolare meccanismo psicologico, l’eccessiva ricerca di sicurezza non elimina la paura, piuttosto la incentiva; più aumentano le realizzazioni volte a garantire la sicurezza personale e collettiva, più aumentano le costellazioni simboliche e affettive legate alla paura.

La paura sembra così prosperare proprio quando si fa della sicurezza il criterio supremo del vivere, quando si cerca di evitare i rischi piuttosto che affrontarli alla radice. La paura ci si presenta con un fondamento reale, ma cresce nel nostro immaginario come un dubbio pervasivo che, irrazionalmente, occupa uno spazio sempre maggiore nella nostra mente, fino a prendere possesso di noi e a farci suoi schiavi.

La pretesa di eliminare – o controllare – ogni rischio è non solo irrealizzabile, ma ci rinchiude in un recinto – reale o simbolico – in cui è interrotta ogni comunicazione. La paura paralizza e spegne ogni dimensione di progettualità, scava fossati, erige muri.

Un baratro è l’uomo e il suo cuore è un abisso” dice il salmo 64 (v. 7). La Bibbia non rifiuta di guardare il lato oscuro dell’animo umano, non ha paura di guardare in faccia la paura, o ciò che dall’interno dell’uomo emerge a spaventarlo.

La paura serpeggia in tutta la Bibbia, dalla Genesi all’Apocalisse, e non risparmia neppure Gesù. I racconti della Passione concordano tutti nel mostrarci la paura di Gesù di fronte alla morte e all’abbandono, ma nelle Scritture la paura non è un mostro da abbattere: è una traversata da compiere. Che sia quella del lago di Genesaret in tempesta, che sia quella del Mar Rosso, la madre di tutte le traversate della nostra vita, la paura va attraversata. La via non è già tracciata, va cercata nel guado, va trovata mettendosi in cammino e non da soli.

Nel racconto evangelico della tempesta sedata (Mc 4,35-41) l’evangelista fa notare che, paradossalmente, i discepoli, dopo essersi spaventati della tempesta, si spaventano pure della “soluzione”, sono presi dal timore di Gesù stesso e del suo potere. Non si fidano neppure di lui. Forse il punto è che non ci interessa raggiungere l’altra sponda. Ci siamo accomodati sulle nostre posizioni e non siamo disposti a perdere niente di ciò che abbiamo per vedere che cosa c’è sull’altra riva.

Stiamo soffocando la speranza e il desiderio di un futuro migliore. Ma senza desiderio diventiamo incapaci di vivere, diventiamo sterili e ciechi di fronte alla novità che attende di germogliare. Le parole di un testimone della fede, che ha sperato contro ogni speranza, ci suggeriscono una preghiera: «Allenaci, o Signore, a lanciarci nell’impossibile,
perché dentro l’impossibile ci sono la tua pace e la tua presenza: non possiamo cadere nel vuoto.

Il futuro è un enigma, il nostro cammino si inoltra nella nebbia, ma vogliamo continuare a donarci, perché tu stai aspettando nella notte, con mille occhi umani traboccanti di lacrime» (Luis Espinal, Missionario gesuita in Bolivia, assassinato nel 1980).

La speranza non è buonismo né ottimismo, è lo slancio del dono, è un desiderio attivo, che ci orienta e ci spinge, è la stella del mattino, è il sale, è la fiducia in un Dio che tanto si fida dell’uomo da consegnarsi nelle sue mani, è la certezza dell’amore che risorge e più non muore.

Di qua e di là dai muri e dai fili spinati la speranza è ciò che ci farà vedere negli “occhi traboccanti di lacrime” non potenziali nemici, ma Cristo stesso che ci attende e ci interpella: “Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Isaia 43,19)

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