Si è riaperta, in Senato, la discussione del progetto di riforma della legge n. 91 del 1992, da tempo ritenuta anacronistica in ragione della profonda trasformazione che la popolazione residente in Italia ha conosciuto per effetto delle migrazioni internazionali. Mantenere una quota cospicua e crescente dei propri residenti al di fuori dei confini della “comunità di uguali”, infatti, compromette non solo la qualità della convivenza, ma anche quella della democrazia. Una conseguenza tollerabile soltanto dai regimi non democratici. Affrancare il concetto di cittadinanza dalle sue incrostazioni e derive nazionalistiche è pertanto un passaggio cui difficilmente possono sottrarsi le democrazie che vogliano continuare a definirsi tali. Sebbene ciò implichi il compito, tutt’altro che facile, di ridefinire l’appartenenza secondo criteri diversi da quelli dell’omogeneità etnica e culturale, sui quali si sono storicamente edificate molte delle nazioni europee.
D’altro canto, ogni legge in questa materia è per definizione imperfetta, e presenta risvolti problematici e insidiosi. Solo per fare un esempio, l’introduzione di elementi di jus culture è senz’altro utile a evocare la necessità di un rapporto non solo strumentale con la cittadinanza e i vantaggi che essa arreca, sottolineando l’importanza della sua componente identitaria e dell’adesione ai valori fondamentali di una comunità politica. Ma, come ben dimostra l’esperienza degli altri paesi, questa soluzione indugia facilmente a finalità selettive (atteso che il soddisfacimento di determinati standard culturali è un obiettivo che si misura con la disuguale dotazione di risorse) e altrettanto facilmente entra in tensione con la libertà di pensiero (come quando, ad esempio, si spinge a pretendere la “condivisione” della totale uguaglianza di diritti tra eterosessuali e omosessuali). E imperfetta non potrà che essere anche la legge che esiterà dal dibattito parlamentare.
Tuttavia, una riforma che rafforzi i principi dello jus soli va considerata ormai inevitabile anche per l’Italia, entrata nella rosa dei principali paesi d’immigrazione, e in questo senso vanno le indicazioni dei maggiori esperti a livello internazionale. Ciò che piuttosto merita di essere sottolineato sono le implicazioni di questo passaggio, soffermandosi su alcuni aspetti rimasti singolarmente ai margini del dibattito di questi giorni.
Considerando dapprima il fronte degli oppositori si può innanzitutto osservare come il progetto di riforma, se venisse approvato, produrrebbe, nell’immediato, centinaia di migliaia di potenziali nuovi cittadini. Ciò che spesso si omette si precisare è come si tratta, in sostanza, di accelerare un processo destinato comunque a compiersi nel giro di pochi anni. Già oggi, d’altro canto, circa 4 su 10 degli stranieri che diventano cittadini (oltre 200mila nel 2016) sono giovani fino ai 19 anni, divenuti italiani per scelta al raggiungimento della maggiore età oppure, più frequentemente, per trasmissione dai genitori che hanno maturato i requisiti per richiedere la naturalizzazione (cf. elaborazione ISMU su dati Istat). E si tratta di cifre destinate a crescere ulteriormente nei prossimi anni, perfino nell’ipotesi in cui il disegno di legge non venisse approvato.
Fomentare la paura che “regalando” la cittadinanza si finirà con l’immettere nel corpo della nazione persone di dubbia lealtà può essere un argomento seducente, ma che diventa insostenibile quando lo si indichi come probabile effetto di una riforma come quella in discussione. Basterebbe constatare come molti dei giovani che si sono macchiati dei più efferati atti terroristici avrebbero posseduto i requisiti per diventare cittadini anche con una legislazione ben più restrittiva. Ammesso – e naturalmente non concesso – che occorra avere la cittadinanza per imbottirsi di esplosivo o lanciarsi con un camion sulla folla inerme.
Decisamente contestabile, infine, l’affermazione secondo la quale siffatta riforma avrebbe l’effetto di attrarre nuova immigrazione “indesiderata”. A calamitare gli immigrati, segnatamente quelli irregolari, è semmai stata, in tutti questi anni, l’ampia e radicata economia sommersa, con la sua insaziabile domanda di lavoro iper-adattabile, insieme alla nostra “tolleranza” nei confronti dell’immigrazione irregolare e delle pratiche di aggiramento della legge (che vedono gli immigrati perfettamente “integrati” al mal costume italico). Non certo quella cultura dei diritti – e dei doveri – di cui dovrebbe sostanziarsi l’istituto della cittadinanza.
Ma ugualmente discutibili sono, per converso, molti degli argomenti addotti dai fautori della riforma. Certamente improprio è innanzitutto sostenere che quest’ultima possa costituire un sollievo per la grave situazione demografica del paese più “vecchio” al mondo. Poiché è ovvio che un mutamento di status non avrà alcuna efficacia nel riequilibrare la composizione di una popolazione che registra – nonostante il contributo di un’immigrazione concentrata nelle età riproduttive – un numero di nascite annuali più che dimezzato rispetto a quello dei mitici anni del baby boom.
Altrettanto fuorviante affermare che l’apporto di questi nuovi italiani sarà indispensabile per far funzionare l’economia e “pagarci le pensioni”. Poiché per rendere concreto e prezioso il contributo dell’immigrazione e dei suoi discendenti occorrerà piuttosto creare lavoro, e soprattutto lavoro “buono”, con prospettive di stabilizzazione e retribuzioni dignitose. Uno scenario ben distante da quello che oggi vede tanti giovani ripercorrere le rotte dei migranti del passato, nella speranza di poter mettere a frutto i propri talenti e la propria voglia di lavorare. E tanti giovani, soprattutto stranieri, sottoccupati e sotto-retribuiti, quando non esclusi da ogni forma partecipazione attiva (tra gli stranieri 15-34enni, la quota di NEET è pari addirittura al 35%, e supera il 47% tra le giovani donne, svettando di ben 20 punti percentuali al di sopra di quella delle giovani autoctone).
Ancor meno convincente fondare la necessità di una riforma sulle lungaggini e le pastoie burocratiche che oggi allungano ben oltre i requisiti di legge i tempi di attesa per i candidati alla naturalizzazione. Esse sono semmai l’ennesima riprova di un sistema caratterizzato da scarsa cultura dei diritti e inefficienze ataviche, che nell’impatto con l’immigrazione si sono manifestati in tutta la loro gravità (come non mancano di osservare gli stessi immigrati, quando li si invitano a confrontare l’Italia con le altre democrazie “avanzate”). Ricordandoci come a qualificare ogni legge, oltre al suo contenuto, è la capacità e la volontà di farla rispettare (o di non farla rispettare). Tanto da renderci sconcertati di fronte a un paese che tollera, proprio nei confronti degli immigrati per i quali s’invoca l’uguaglianza in tutto e per tutto, situazioni di sistematica violazione dei diritti più basilari, e condizioni di sfruttamento che rasentano lo schiavismo.
Infine, la riforma non avrà l’effetto di rendere davvero uguali i bambini che nascono in Italia. I più vulnerabili di questi bambini, come i figli degli immigrati irregolari, non potranno accedere ai suoi benefici, così come i più poveri, appartenenti a famiglie prive dei pur modesti requisiti di reddito e di alloggio previsti dal disegno di legge, e i minori che hanno evaso l’obbligo scolastico (che più che un requisito per accedere alla naturalizzazione dovrebbe essere un diritto davvero inviolabile). Così come potrebbero restarne esclusi i figli dei genitori più “fondamentalisti”, inclini a privilegiare il legame col paese d’origine, e quelli dell’iper-borghesia internazionale, poco interessati ai “vantaggi” della cittadinanza italiana.
Alla élite dei giovani di “seconda generazione”, come essi stessi si definiscono, che si è mobilitata all’insegna dello slogan “italiano sono anch’io”, va il merito di aver richiamato l’attenzione su quanto la cittadinanza di un paese democratico possa essere preziosa, specie per chi reca l’eredità di una storia familiare segnata dalla ricerca di una vita libera e affrancata dalla povertà. E, insieme, sulla necessità di dar voce, anche dentro i processi deliberativi, a una società sempre più plurale e connessa con altri mondi. Ma il suo significato, anche dal punto di vista simbolico, potrebbe essere ancor più rilevante per i molti giovani vittime della condizione di disagio strutturale (e spesso anche di marginalità e auto-segregazione) che segna l’esperienza dei figli di un’immigrazione concentrata nei gradini più bassi della stratificazione sociale. E sono soprattutto costoro che interpelleranno la società italiana nella sua capacità di dar seguito alle attese che la “concessione” della cittadinanza porta con sé. Giacché la storia ci insegna come la promessa dell’uguaglianza, quando resta solo una promessa, rischia di essere ancor più frustrante della disuguaglianza istituzionalizzata.
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