La riflessione qui proposta deriva dall’esperienza maturata dal Patronato Acli nel proprio lavoro quotidiano e da una lettura attenta su quanto è successo, negli anni, con l’applicazione concreta delle tante “presunte” riforme del sistema contributivo italiano.
Parliamo di presunte riforme perché in realtà già prima del 1995, data importante perché vede l’emanazione della legge Dini – che stabilisce i criteri del passaggio da un calcolo retributivo della rendita pensionistica a quello contributivo – dobbiamo constatare, disarmati, che le regole “contrattuali” per definire la propria rendita pensionistica e in base alle quali vengono operate le scelte da parte dei lavoratori, sono continuamente variate unilateralmente dallo Stato (in particolare: D.Lgs.503/92, L.335/95 c.d. Riforma Dini, L.724/94, L.449/97, L.243/2004, L.247/2007, L.122/2010, L.214/2011 c.d. Riforma Fornero, per citare solo le più importanti, perché poi in ogni legge di Bilancio abbiamo assistito a variazioni, chiarimenti, inserimenti).
Lo Stato quindi non sembra un partner affidabile cui legare le sorti dei propri destini previdenziali, a cui dare i risparmi di una vita lavorativa e le risorse che dovranno garantire una esistenza libera e dignitosa nel momento di maggior debolezza. Questa situazione non offre certezza dei rapporti giuridici né adeguata tutela previdenziale. E non rafforza così il patto sociale e la fiducia dei cittadini nello Stato e nelle istituzioni.
Dal ’95 non è stata fatta nessuna vera riforma ad eccezione della famigerata “legge Fornero” (L.214/2011), che è intervenuta in modo deciso rendendo molto rigido l’accesso al sistema previdenziale. Con rammarico e preoccupazione possiamo affermare che oggi abbiamo un sistema iniquo ed ingiusto che paradossalmente penalizza i più deboli e bisognosi, giovani e persone con vite lavorative precarie o intermittenti.
L’attuale sistema previdenziale, infatti, si caratterizza per una eccessiva rigidità e onerosità dei requisiti di accesso alle prestazioni pensionistiche. Qualche dato ci aiuta a fotografare la situazione.
Per le pensioni di vecchiaia delle dipendenti del settore privato si è passati dai 60 anni di età del 2011 agli attuali 65 anni e 7 mesi, per le lavoratrici autonome si è passati dai 60 anni a 66 anni e 1 mese e per tutti gli uomini (privati e pubblici, dipendenti e autonomi) nonché per le donne del pubblico impiego, dai 65 anni del 2011 (61 anni per le dipendenti pubbliche) siamo arrivati agli attuali 66 anni e 7 mesi. Il tutto condito da un inarrestabile meccanismo di progressivo e costante innalzamento dei requisiti pensionistici per l’adeguamento alle “aspettative di vita” che non tengono conto delle particolari condizioni lavorative (usura, nocività, gravosità) o stato di salute del lavoratore.
Occorre avere coraggio per raccontare tutto questo a un giovane 20enne che si affaccia oggi sul mondo del lavoro (ammesso che succeda), e che dovrebbe destinare un terzo del proprio compenso alle casse dell’Inps.
Gli sfortunati lavoratori delle nuove generazioni, che entrano tardi nel mondo del lavoro, sono quelli più deboli in quanto vittime del lavoro precario (e molto spesso poco retribuito) e quindi destinati a carriere contributive ridotte, frammentate e discontinue (“neo iscritti a partire dall’1.1.1996”). Questi giovani lavoratori sono destinatari del sistema previdenziale contributivo puro e per accedere alla prestazione hanno un ulteriore vincolo: il raggiungimento di un importo minimo pensionistico pari all’1,5 per la vecchiaia o 2,5 (per l’anticipata) dell’assegno sociale Inps che risulta difficilmente conseguibile se non supportato da un certa regolarità e consistenza dell’accantonamento contributivo. Tale previsione si unisce al divario di genere che si concentra soprattutto, ma non solo, sulle retribuzioni che in media sono più basse.
Questi squilibri del nostro sistema sono paradossali perché generano un evidente corto circuito. Infatti c’è adeguato livello di copertura previdenziale individuale quando il soggetto ha avuto la possibilità di fruire di un percorso lavorativo continuativo e adeguatamente retribuito. Quando queste condizioni non sono garantite tutto il sistema previdenziale viene danneggiato e non è in equilibrio.
Stiamo di fatto dicendo alle nuove generazioni che l’accesso anticipato alla pensione è appannaggio dei lavoratori più stabili e ricchi, quindi di quelli che è da presumersi siano i meno bisognosi. Questo è un capovolgimento dei principi di tutela previdenziale che imporrebbero una prioritaria attenzione alle situazioni di maggiore precarietà.
Con la nostra proposta invece in sostanza chiediamo l’abolizione degli importi soglia per accedere alla pensione. Infatti per molti lavoratori (coloro “con riferimento ai quali il primo accredito contributivo decorre successivamente al 1° gennaio 1996”, destinatari del sistema previdenziale contributivo) l’accesso alla pensione di vecchiaia anteriormente al 70° anno di età è attualmente subordinato al raggiungimento di determinati importi soglia difficilmente conseguibili se non supportati da una certa regolarità e consistenza dell’accantonamento contributivo.
Non minore elemento di criticità del sistema contributivo è rappresentato dalla mancata previsione del diritto al trattamento minimo di pensione, situazione che crea grande sofferenza sociale soprattutto in relazione a eventi traumatici quali l’invalidità e la morte. Come Patronato assistiamo inermi alla concessione di pensioni di invalidità o di pensioni ai superstiti dagli importi indecenti che creano nuovi poveri nella nostra società. Lo stato dovrebbe invece essere presente e intervenire per sollevare dal disagio causato da forza maggiore.
Questo sistema sta creando nuovi poveri e rischia di crearne ancora altri. Siamo convinti che al paese occorre andare oltre, serve una vera e propria riforma strutturale che abbia come cuore la nostra Costituzione l’ Art. 38 in particolare: “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”.
Il principio ispiratore menzionato ci sollecita a scrivere una riforma che preveda un principio universalistico, e non più solo selettivo, di flessibilità nell’accesso a pensione; che consenta l’accesso a pensione ad una età libera opzionabile a partire da un requisito anagrafico minimo – (con una penalizzazione per chi rientra nel sistema misto di calcolo) – che nella legge 335/1995 era di 57 anni, e oggi potrebbe ragionevolmente collocarsi in un intervallo tra i 63 ed i 65 anni di età -, con il possesso di un minimo di 20 anni di contribuzione e con rendimento pensionistico crescente o decrescente a seconda dell’età di accesso a pensione.
La riforma dovrebbe costruire un sistema che preveda informazione e agevolazioni a lavoratori e imprese per l’avvio della pensione complementare al fine di arginare il gap di rendita delle future pensioni. Un sistema che garantisce una maggiore giustizia, eliminando in particolare ogni tipo di divario di genere (fiscalizzazione di alcuni versamenti contributivi, ampliando le coperture figurative, intervenendo sul sistema delle retribuzioni..).
Un sistema anche più equo e che per le prestazioni a reddito utilizzi un parametro come l’Isee per l’individuazione di chi effettivamente merita le prestazioni aggiuntive.
Riepilogando, in sintesi la proposta del Patronato Acli punta su su 5 elementi cardine:
a) La reintroduzione di un principio universalistico, e non più solo selettivo, di flessibilità nell’accesso alla pensione
b) L’introduzione di una “Pensione di inclusione” nel sistema contributivo
c) L’abolizione di ogni livello soglia di importo pensionistico minimo quale condizione per l’accesso alla prestazione
d) L’adozione di ulteriori misure di contrasto del divario pensionistico di genere
e) La necessità di rilanciare la previdenza complementare quale strumento di attuazione dell’art. 38 della Costituzione. In questa prospettiva si propone di destinare parte della contribuzione obbligatoria IVS (Invalidità, Vecchiaia, Superstiti) al finanziamento della previdenza complementare.
Si propone inoltre di adottare il parametro ISEE come strumento di rilevazione dello stato di bisogno funzionale al riconoscimento delle prestazioni collegate al reddito. La blockchain technology.
Chi fosse interessato può leggere le proposte del Patronato Acli nella versione completa, costruite con un taglio tecnico. Queste proposte hanno un relativo impatto economico che crediamo sia sostenibile, certamente più sostenibile che lasciare un’intera generazione nel rischio povertà.
Siamo certi che solo un intervento strutturato, forse poco “elettorale”, ma che però abbia il coraggio di rimodellare complessivamente il nostro sistema previdenziale possa avere “gambe” per sostenerci in futuro.
Nel frattempo i nostri uffici continuano a vigilare, a raccontare e studiare, tramite l’esperienza e l’approfondimento, la realtà; per questo non vogliamo far mancare la nostra voce per sensibilizzare l’opinione pubblica e ottenere dalla politica miglioramenti a questo sistema che oggi pecca palesemente di mancanza di futuro.
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