Le vittime innocenti, proprio perché innocenti, sollevano questioni onerose nel mio cuore: dal perché che ha ricevuto molte supposizioni da parte di persone autorevoli in questi giorni, ma nessuna risposta diretta da parte degli autori, perché morti o ancora in fuga; alla sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato; al dolore e alla sofferenza che vivono più direttamente familiari e amici, alle domande più vaste che interrogano il nostro stare insieme a questo mondo.
Le vittime colpevoli, proprio perché colpevoli, sollevano altre domande, che tuttavia non possono farci dimenticare che erano uomini e donne come noi, presi dal lato oscuro del desiderio di vita e tuttavia sempre uomini e donne che rimandano ai nostri lati oscuri.
Ho provato a mettermi nei panni degli attentatori: giovani cresciuti nella nostra cultura occidentale che ha inciso nei loro cuori desideri, sentimenti, pensieri, azioni quotidiane, fino a fargli credere di dover compiere un gesto di onnipotenza che solo la nostra società ha concepito (le guerre mondiali, per esempio) e può concepire: far sentire impotente una intera civiltà che fa della potenza creatrice un suo tratto distintivo.
Questi giovani sono stati capaci di concepire e mettere in atto una rivolta contro la nostra cultura con i nostri stessi mezzi: pochi soldi per mettere insieme le bombe, qualche soldo per vivere mentre si preparavano nella clandestinità, una idea potentissima: fare paura al mondo intero per mostrare che loro non hanno paura di noi, che possono anche dare la vita per dire quello che a parole non verrebbe ascoltato, ma che con i fatti, si che viene ascoltato e trasmesso 24 ore su 24 sui media.
Una volontà di potenza, certo non per la vita, ma per la morte, e qui sta la differenza vera, ma c’è da considerare che questi giovani si ritenevano forse quegli scarti di cui parla papa Francesco e che volevano far sentire la loro voce contro questa società che non li ha accolti fino in fondo.
Dopotutto se solo nelle terre occupate da Daesh si può vivere in modo giusto e onesto, secondo la propria tradizione, perché non allargare i suoi spazi vitali seguendo un desiderio imperialista utopico (e l’utopia non è propria dei giovani?). Quanti desideri utopici, come quello di esportare la democrazia con le armi, per esempio, abbiamo anche noi in Occidente su cui alla fine non ci facciamo neanche troppe domande?
Certamente non sono dei pazzi ed etichettarli così non ci aiuta a comprenderli, perché li disumanizza, ma essi sono uomini e donne come noi, e noi non siamo pazzi.
Una supposizione che posso fare è che in fondo questi giovani volevano comunicarci qualcosa di importante e che in questo modo non siamo in grado di comprendere, un urlo che non si è fatto parola, come un neonato che può solo gridare il suo bisogno di amore e di accudimento.
Possiamo e dobbiamo trovare delle misure che arginino questa violenza, e tuttavia non possiamo – contemporaneamente – fare a meno di provare a cercare di comprendere quello che questo urlo quasi disumano vuole dire al nostro cuore, sufficemente soddisfatto delle proprie condizioni di vita, nonostante la crisi, ma incapace più di un tempo di guardare a chi sta ai margini, ai possibili scarti della nostra socialità.
Non saper dialogare con le parole, con il cuore in mano e la testa sulle spalle, ci accomuna nella nostra fragilità di uomini e donne che desiderano una vita buona per tutti. In questo siamo uguali, e noi sopravvissuti non possiamo fare altro che tentare questo dialogo di pace per il bene nostro, cioè di tutti gli uomini e le donne di questa umanità che soffre e spera in un mondo migliore.