Se una persona entra in una biblioteca teologica e cerca il settore spiritualità si imbatte in un quantitativo imponente di opere.
Si sente dire, come fosse qualcosa di ovvio, che alcune cose attengono alla sfera spirituale mentre altre sono di competenza della psicologia.
Eppure, se mi chiedo che cosa significhi esattamente sfera spirituale, livello spirituale e simili, debbo riconoscere con me stesso che mi trovo in difficoltà.
Quali elementi del nostro mondo interiore sono da considerarsi elementi spirituali e quali sono da considerarsi psicologici? E, soprattutto, ha senso una distinzione del genere?
Avendo “dimorato” per circa dieci anni nell’Università Gregoriana di Roma tra scienze religiose, filosofia e teologia fondamentale, questa mia difficoltà non mi sembra un fatto molto buono per l’autostima.
Il bilancio è che posso solo mettere insieme delle suggestioni, qualcosa che mi aiuti a puntare il dito in direzione del mondo spirituale, qualcosa che mi metta sulla strada dell’intuizione.
Debbo però anche dire che queste poche suggestioni mi sembrano un qualcosa di adeguato proprio per la loro povertà. Il livello spirituale non ci consente tanti teoremi, la sua profonda verità, probabilmente, sta proprio nel lasciarsi solo sfiorare.
Le suggestioni dunque.
La prima mi proviene dal filosofo Giorgio Salzano, docente di gnoseologia nella stessa Università Gregoriana.
Alcuni anni fa in uno scritto di questo studioso, diffuso nell’ambiente universitario e forse non destinato alla pubblicazione, trovai una considerazione molto interessante.
Si soffermava sull’analisi, che ciascuno di noi può compiere, dei propri stati psichici; analisi che parte, ovviamente, dall’introspezione e che può proseguire in modo più tecnico con i modelli che la psicologia e la psicoanalisi ci offrono.
Immergendosi in questa analisi è possibile avere un’esperienza particolare che resta senz’altro nella memoria, è l’esperienza di intuire una abissale distanza ed al tempo stesso una totale, viscerale coincidenza tra i propri stati psichici descritti, oggettivati e l’imprendibilità della propria autocoscienza.
Lasciamoci un attimo trasportare dall’espressione “Io penso me”.
Si intuisce l’abisso, il mistero. I miei stati di coscienza, quel “me”, possono essere descritti in modo molto raffinato, scientifico, nel senso ovviamente delle “scienze dello spirito”, senza che sia minimamente sfiorato quel qualcosa di fondamentale che è luminosamente presente e al tempo stesso immensamente sfuggente quando pronuncio la parola “Io”.
Non penso di essere originale, intendiamoci, e nemmeno Salzano, da fine studioso, lo pensava.
Riflessioni di questo tipo poggiano su millenni di speculazioni provenienti da oriente e da occidente, la ricerca filosofica sull’autocoscienza ha regalato all’umanità un patrimonio affascinante di pensiero.[1]
Solo che questa semplice considerazione, relativamente semplice in verità, può essere lo sfondo, lo scenario su cui osservare le suggestioni che ho in mente.
L’”Io” è una realtà sfuggente e granitica al tempo stesso, e, soprattutto, è una realtà la cui considerazione può essere molto “utile”.
Che cosa intendo dire con una frase del genere?
Ian Thomas Ramsey[2] ha dedicato una notevole parte della sua indagine filosofica e, direi, anche teologica, al problema della significatività del linguaggio religioso[3].
La critica dei filosofi analitici nei confronti del linguaggio metafisico e religioso è nota. Dato che ai termini del linguaggio metafisico o religioso non si associano fasci di sensazioni questi termini non farebbero riferimento ad alcunché di esperibile, limitando il significato di “esperienza” a quello accettato dall’empirismo ovviamente. Questo stato di cose semplicemente ne fa dei flatus vocis, delle espressioni vocali insignificanti, in nessun modo assimilabili a concetti.
Questa posizione ha dato origine ad un dibattito filosofico a dir poco ricco con posizioni le più varie tra chi aderisce alla drastica scure dei filosofi analitici e chi la vede in modo diverso attribuendo un significato e, soprattutto, un valore a questi termini.
Tra questi ultimi, Ramsey propone una riflessione che ho sempre trovato molto interessante. Ramsey osserva che i termini del discorso metafisico presentano due caratteristiche che spesso non vengono notate da chi, con sguardo analitico, li destituisce di significato.
Una prima caratteristica è che questi termini possono essere collegati con altri termini che, questi sì, appartengono al mondo della verificabilità empirica. Una seconda caratteristica è che questi termini sono “integrativi”. Sono termini che, pur non appartenendo al mondo della verificabilità empirica, costituiscono, per così dire, una sorta di radice di fondo in grado di connettere tra di loro i termini verificabili.
L’esempio, penso, più significativo che Ramsey propone, ed ecco il motivo per cui attingo al suo pensiero in questa occasione, è proprio il termine “Io”.
Ramsey osserva che questo termine può essere utilizzato in modo simile all’uso che viene fatto di ogni altro pronome diverso dalla prima persona singolare o di ogni altro sostantivo. È possibile dire “io corro” così come è possibile dire “quest’uomo davanti a me corre”. Eppure, il termine “Io”, proprio per la misteriosità che comporta e da cui abbiamo preso le mosse, sembra non essere in alcun modo definibile esaurientemente dalle regole del mondo empirico così come invece la locuzione “quest’uomo”. Nonostante questa misteriosità, questa “imprendibilità” il termine “Io” è massimamente una parola “integrativa”, è una specie di link, di trait d’union tra il mondo empirico e quello metafisico sottostante ogni realtà. Quale proposizione puramente descrittiva potrebbe essere pensata senza poter contemporaneamente pensare “Io”?
Il termine “Io”, appunto, integra, cioè rende in qualche modo possibile il reale più empirico e rende intuibile il tessuto di fondo del reale che, altrimenti, resterebbe in notevole misura frammentario.
La scienza non dovrebbe essere recalcitrante, secondo Ramsey, nei confronti della speculazione metafisica. Termini di questo tipo sembrano proprio corroborare la grande ipotesi unitaria che il lavorio scientifico postula, pena l’insignificanza.
Teniamo a mente questa osservazione come risultato maggiormente rimarchevole della prima delle suggestioni che propongo.
La misteriosità dell’autocoscienza è lo sfondo su cui osservare ogni suggestione diretta ad illuminare, per quanto possibile il significato della sfera spirituale e questa misteriosità sembra essere un qualcosa in grado di integrare, rendere in qualche modo intuibile il tessuto unitario del reale.
Seconda suggestione.
Alle volte, analizzando alcune caratteristiche psichiche che possono aver influito su scelte particolari come su orientamenti di vita generali, sia miei che di altre persone, mi sono trovato a pensare: “bene, è stato giusto così!”, semplicemente ed in modo molto pacato.
Mi sentirei di dire che questi momenti, queste prese di posizione, sono collegabili con quell’indefinibile cui alludo con l’espressione “spiritualità”, qualcosa di simile all’attingere ad una sorgente di fondo dell’esistenza.
Ho notato che questo affermare aveva la caratteristica di essere qualcosa di globale, come una specie di sguardo di insieme sulla vita che, in qualche modo, superava i dettagli dell’analisi psicologica che andavo facendo tra me e me.
Questo qualcosa di globale e pacificante sembrava proprio provenire da quell’abisso di distanza e totale coincidenza a cui ho fatto cenno sopra in riferimento alla parola “Io”, parola che Ramsey definisce “integrativa” come abbiamo visto.
Momento spirituale come globalità pacificante, appunto. L’unione di questi due elementi è il fatto che mi sembra maggiormente rilevante di questa seconda suggestione.
Perché questo aspetto di globalità pacificante che è comunicato da questi momenti che chiamo “spirituali” mi appare così rilevante?
Ho avuto modo di riflettere sul cosiddetto mondo “postmoderno”[4] osservando come gli studiosi del fenomeno indichino la frammentazione, la perdita di visioni complessive e rassicuranti come uno degli elementi che lo caratterizzano.
Non credo servano a molto i tentativi di ricostruire sistemi condivisi di immagini, di gusti, di comportamenti. Questi tentativi alla fine si rivelano per quello che sono cioè delle imposizioni, magari benevole ma pur sempre imposizioni.
Inutile cercare di restaurare quadri che oramai hanno fatto il loro tempo, l’ossessività non è mai servita a nulla nelle cose umane.
Io penserei invece che proprio il mistero autocoscienza, quell’Io della vita spirituale, può venire in nostro aiuto con tutta la sua capacità di affondare nella pace e di “integrare” come dice Ramsey.
La frammentazione che stiamo vivendo perde il suo carattere lacerante se consentiamo al mistero della spiritualità di avvolgerci.
Anche in questo caso, come in molti altri, dopo aver riflettuto mi accorgo che i risultati della mia riflessione sono noti all’anima da sempre.
Nella nostra tradizione cristiana la frammentazione è superata dall’unità e l’unità è unità di coscienze: “…perché tutti siano una sola cosa. Come Tu, Padre, sei in me e io in Te, siano anch’essi in noi una cosa sola…” Gv 17,21.
Una terza suggestione è, probabilmente, solo una variazione sul tema rispetto alle due precedenti.
Però penso sia il vero e proprio distintivo, il vero e proprio “marker” di una riflessione spirituale, ciò che rende possibile intuirne la differenza profonda rispetto ad ogni considerazione ispirata alle scienze umane.
Una riflessione spirituale è, essenzialmente, una riflessione focalizzata su un fine. Quando, di fronte ad un dato fornitomi dall’autoanalisi in termini psicologici così come di fronte ad un’esperienza esteriore, mi trovo a dirmi che tutto sommato “è bene così”, con l’apprensione globale e pacificante del reale di cui dicevo sopra, questo significa una sola cosa cioè che i dettagli della mia autoanalisi e della mia situazione sbiadiscono di fronte ad un desiderio, di fronte ad un orizzonte.
Il Padre Mihály Szentmártoni S.J. ci fornisce esempi dettagliati di questo interessante atteggiamento interiore esaminando le biografie di alcuni santi che non sono stati “affondati” dai disturbi psichici che li affliggevano, disturbi alle volte di natura francamente psicopatologica, ma, semplicemente, li hanno “messi a frutto”, hanno “utilizzato” i tratti caratteriali che questi disturbi comportavano per costruire il Regno[5].
Penso sia evidente, non appena ci si soffermi sulla cosa, che questa è la differenza profonda tra una riflessione di tipo spirituale ed una di tipo psicologico. Una riflessione psicologica cerca cause, con tutti i distinguo che questo concetto comporta in una riflessione del genere. Le idee chiave che la animano sono quelle di “funzionamento”, “analogia”, “sistema”, “topica”. Ovviamente non si cerca in modo becero la riproducibilità, siamo nel campo delle scienze umane, la capacità interpretativa, l’empatia sono gli strumenti intellettuali di fondo. Però l’obiettivo resta pur sempre il contatto conoscitivo con la realtà umana che si ha di fronte considerata come prodotto, esito.
Una riflessione di tipo spirituale considera la realtà umana su cui verte essenzialmente in quanto “rimando ad altro”, la realtà umana oggetto di una riflessione di questo tipo è osservata sotto l’aspetto della sua “fecondità”, del poter essere “proficua per”.
L’idea di fondo che anima una riflessione di tipo spirituale penso proprio che possa essere quella di “trasfigurazione”, l’idea del contatto con la realtà umana considerata essenzialmente come capacità di indicare, di far presagire qualcos’altro come vero essere.
Riflettendo in questo modo ho potuto rendermi conto di quanto fosse ingenuo il pensare di poter distinguere, nel mio flusso di coscienza, eventi di natura spirituale ed eventi di natura psicologica, quasi i primi potessero presentarsi alla coscienza per diretta infusione dall’alto, senza alcun collegamento con il suo naturale operare.
Penso che uno strumento concettuale in qualche misura utile per avvicinarsi, o almeno per girare attorno al mondo spirituale degli umani possa essere quello delle cosiddette “proprietà emergenti “. Negli esseri di questo mondo, in tutti gli esseri a vari livelli, si manifesta spesso qualcosa che è di grande evidenza, che è massimamente proprio di questi esseri stessi nella loro grande varietà e che, al tempo stesso, è talmente irriducibile al loro modo elementare di funzionare da creare sconcerto[6].
Proprio lo sconcerto che viene ingenerato abbastanza spesso dalle riflessioni sulle proprietà emergenti è il motivo per cui questo strumento mi sembra adeguato, o almeno non troppo inadeguato, per tentare un avvicinamento alla vita spirituale. Non credo che vi sia nulla di meglio di un sano, perplesso sconcerto, umile e fecondo, per tentare di sfiorare la vita spirituale.
In fondo la riflessione ampia di Pierre Teilhard de Chardin su “Il fenomeno umano” probabilmente dona quel senso di elevazione proprio perché ha come idea guida quella secondo cui nell’essere umano appare, “emerge” l’inusitato.
Non penso, poi, che una simile riflessione possa portare all’accusa di immanentismo, è chiaro che l’idea delle proprietà emergenti, appunto, è solo un’idea, un’immagine. Non mi sogno di affermare che la sfera spirituale della realtà umana possa in qualche modo essere paragonabile ad altre sfere più o meno irriducibili a quelle sottostanti ma comunque saldamente ancorate nella naturalità.
Direi proprio che si può, di buon grado, accogliere la guida di Teilhard anche in questo caso.
Ho lasciato alla fine le due suggestioni per me più delicate.
Anzitutto che cosa ha da dire la vita spirituale alla vita etica?
Di solito questo rapporto viene esaminato sotto due punti di vista[7].
Da una parte si può pensare che una vita eticamente/moralmente buona in qualche modo “inveri” l’esperienza spirituale da cui è originata, nel senso che l’eticità di fondo di una vita, l’attenzione al bene è testimonianza della autenticità dell’esperienza spirituale.
D’altra parte, l’esperienza spirituale “modera” la vita etica, nel senso che un’esperienza spirituale autentica rende la vita etica fine, delicata capace di andare oltre la brutalità della regola pura e semplice e di aprirsi al mistero dell’”umano”.
Penso che non sfugga il fatto che si tratta della stessa realtà vista, per così dire, da due diverse direzioni: la radice di fondo è sempre la autenticità della vita spirituale e la capacità che questa autenticità mostra di influire significativamente sulla sfera etica dell’esistenza.
Queste osservazioni, che ho riportato in modo ingenuo, sono articolate spesso con grande raffinatezza nei testi di teologia morale, come è giusto che sia vista l’importanza della questione.
Per parte mia mi sentirei, semplicemente, di lasciarmi affascinare dall’idea che l’esperienza spirituale, quando è vera, riesce ad illuminare la grande e profonda libertà che è alla radice della vita etica.
Ora la domanda cruciale.
L’ultima suggestione.
Una proposizione di tipo spirituale è vera? Che cosa significa “vero” in riferimento a proposizioni il cui carattere distintivo, il cui modo di essere è intuibile in qualche modo seguendo le suggestioni di cui abbiamo parlato?
Può essere fuorviante esaminare le proposizioni di tipo spirituale con gli strumenti della gnoseologia generale o con gli strumenti dell’analisi del linguaggio.
Infatti, queste riflessioni, secondo diverse prospettive e con diversi esiti, indagano sulla possibilità di porre in relazione le proposizioni con una, non meglio definita, “realtà” con l’idea che da questa possibilità di rapporto derivi il diritto all’esistenza significativa delle proposizioni stesse.
In definitiva il sentiero gnoseologico poggia sulla “dipendenza nell’essere del linguaggio” da qualcosa di altro da sé.
Una proposizione di tipo spirituale, per via delle riflessioni che andiamo facendo, sembra avere esattamente l’orizzonte opposto. Essa esprime una trasfigurazione, un “tendere verso” e questa tensione conferisce l’essere vero e proprio a qualcosa che ne è solo parvenza o, quanto meno, indica l’orizzonte in cui la possibilità di conferire l’essere effettivamente risiede. Qui non si ha a che fare con proposizioni che “ricevono” il diritto di esistere da altro ma piuttosto con proposizioni che sono dotate di una facoltà veramente particolare cioè quella di “rivestire” di esistenza.
Altro che dipendenza nell’essere, la vitalità di queste proposizioni è a tutta prova ed è più autonoma e feconda che mai.
Come in altre circostanze mi rendo conto, con un pochino di delusione per l’amor proprio, ma in realtà con notevole pacificazione, che nella nostra avventura cristiana cose di questo tipo si dicono da molto.
San Paolo ci riassume con un’espressione sobria e bella questi passi che ho cercato faticosamente di mettere uno dietro l’altro “se viviamo dello Spirito” (Gal. 5,25). È tutto molto semplice, profondo e misterioso, lo Spirito non è qualcosa di distinto da analizzare, è la vita vera.
[1] In qualche modo può essere considerato in collegamento con questa visione quel filone di ricerche degli ultimi decenni che è conosciuto come “neuroteologia”. Si tratta di una indagine circa il rapporto tra l’esperienza soggettiva di spiritualità e gli eventi biochimici del cervello originata dall’opera del neurologo James Austin (James H. Austin, Zen and the Brain. Toward an Understanding of Meditation and Consciousness, MIT Press, 1998)
[2] 31/01/1915-06/10/1972. Personalità di rilievo del pensiero analitico e di quello teologico anglosassone, insegnante ad Oxford e vescovo della Chiesa d’Inghilterra.
[3] Ramsey I.T., Religious Language. An Empirical Placing of Theological Phrases, London SCM Press, 1957
[4] F. Riccardi, Postmodernità e Spiritualità Ignaziana, Cristiani nel Mondo, Gennaio-Aprile 2015, Roma, 17-21
[5] “M. Szentmártoni S.J. “Psicopatologia e santità”, in La santità (a cura di P. A. Elberti s.j.), Chirico, Napoli 2001, 165-206.
[6] Forse il primo pensatore che si è dedicato con metodo moderno alla riflessione su questo tema è stato John Stuart Mill (1806-1873) anche se sembra potersi affermare che l’idea è molto più antica, risalente a Galeno di Pergamo (130-210). In fondo, sommessamente, mi sentirei di osservare dire che essa è presente in nuce anche nell’aristotelico ilemorfismo.
[7] Un esempio di questo modo di vedere la cosa si può trovare in Marciano Vidal “Morale e Spiritualità, dalla separazione alla convergenza”, Cittadella Editrice, Assisi, 1998
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