Sembra quasi impossibile che da due semplici modalità di circolazione stradale si possa evincere due concezioni diverse di Stato e di valori che sottendono alla nostra convivenza civile. Essi sono la riprova che ogni atto sociale ed economico ha al fondo una diversa cultura sottostante che lo determina. E il pensiero cattolico democratico mostra ancora una sua fecondità

La Pira soleva dire che quando camminava per strada non incontrava lo Stato, ma soltanto persone; aveva ragione. Ma se, invece di guardare la gente sul marciapiedi, posiamo gli occhi sulla strada emergono con forza due diverse concezioni dello Stato e del rapporto di questo con i cittadini.

Vediamo in dettaglio le differenze che emergono tra la regolazione del traffico a mezzo di semafori o con l’utilizzo delle rotonde. Nel primo caso c’è un dispositivo imperativo di legge, emesso attraverso un segnale visivo, che impone al cittadino di procedere o di fermarsi; esso è a tutti gli effetti un ordine preciso e con tanto di sanzione da parte dello Stato, in caso di effrazione, considerato organo terzo ed imparziale. In sostanza è la concezione statuale derivante dalla rivoluzione francese: la maggior garanzia per il cittadino è la terzietà dello Stato e l’uguaglianza di fronte alla legge, cosa che è stata vera per tutto il ‘900 ma che si è deteriorata a causa delle modalità di applicazione perché presuppone uno Stato molto articolato, con occhi e orecchi dappertutto e un apparato burocratico grande ed efficiente.

La rotonda stradale si basa invece su di una concezione completamente diversa. Esiste una sola regola generale: ha la precedenza chi sta dentro la rotonda; il resto è affidato al comportamento del singolo cittadino. La sanzione per il trasgressore non viene dallo Stato, ma dall’altro automobilista che abbassando il finestrino e alzando la voce, indica a tutti gli altri presenti il torto subito. A meno che non si tratti di incidente con feriti, lo Stato è completamente estraneo e lascia al cittadino l’autonomia gestionale e sanzionatoria. In questo caso non serve un apparato statale molto esteso perché, al di là della regola generale, tutto è lasciato alla discrezionalità dei cittadini.

Su di un punto mi preme focalizzare l’attenzione: nel caso del semaforo la sanzione non è sicura, è solo possibile e con effetti pratici di qualche anno dopo; con la rotonda la sanzione è certa ed immediata. Cesare Beccaria poneva fin dal 1764 anno di pubblicazione della sua opera  Dei delitti e delle pene, i concetti di certezza e di immediatezza della pena alla base del diritto moderno: concetti basilari che molti giuristi odierni sembrano aver dimenticato.

I risultati sono sotto gli occhi tutti: sostituiti i semafori con le rotonde il traffico è molto più scorrevole. Però sorge un’altra domanda: perché in Italia le rotonde sono state introdotte con almeno quarant’anni di ritardo rispetto al mondo anglosassone? La prima risposta, in fondo la più semplice, è che la burocrazia nostrana è lenta ad adeguarsi alle novità, anzi costituisce un pericoloso freno. Costruite le rotonde e affidate al buon senso dei cittadini, il burocrate si è visto privato dei poteri e dell’autorità che gli derivavano semplicemente dal suo ufficio e non ha trovato di meglio di sostituire il diritto di precedenza con uno “stop” ad uno degli ingressi come se questo cambiasse qualcosa nella circolazione.
Ma, come ovvio, non è solo un potere burocratico da salvaguardare, al fondo c’è una visione dello Stato completamente diversa rispetto al mondo anglosassone.

Le tre grandi culture che hanno dominato per tutto il ‘900 – laica, socialista e cattolica – prevedevano che il cittadino non fosse in grado di avere una vita sociale ordinata senza una autorità superiore che gli indicasse la strada maestra. I cittadini venivano sempre considerati come dei “bambini” che andavano guidati con spirito paterno e redarguiti in caso di errore, tanto che il valore della fiducia dello Stato nei confronti del cittadino-bambino era, e continua ad essere, quasi nullo.

Tutto cambia con il nuovo secolo, le tre vecchie culture novecentesche non riescono più a interpretare una realtà che gli è cambiata sotto gli occhi. La cultura socialista è rimasta schiacciata dalle macerie del muro di Berlino, quella laica è affogata nella carta di una burocrazia autoreferente, quella cattolica ha vissuto anni di chiusura ai nuovi segni dei tempi che irrompevano nella storia. Ma a pensarci bene proprio per l’estraneità dal mondo oggi è l’unica che può reinterpretare il nuovo e portare la “speranza” del domani ad una società che l’ha smarrita.

Per primo occorre riscoprire il valore della “fiducia” nell’uomo, anzi nella persona umana; in secondo luogo il valore della “responsabilità personale” che si è appannato e quasi annullato dal rifiuto della corporazione stessa della funzione giurisdizionale interna, primo giudizio effettivo e in molti casi cogente della società; e in terzo luogo il concetto di universalità che per questo include il concetto stesso di “bene comune”. Gli interessi corporativi hanno totalmente offuscato il carattere di universalità che ogni atto di ogni singolo cittadino o associazione deve comunque avere in un bilanciamento tra la dimensione personale e comunitaria.

Ebbene questi tre valori sono di per sé valori universali, ascoltati e accolti da tutti; essi sono valori umani tout-court e quindi sono anche valori cristiani a pieno titolo. Allo stato delle cose solo il cristianesimo ha la possibilità di riaffermare l’universalità degli atti sociali ed economici, la responsabilità personale e la fiducia nella persona come valori fondanti di una società che ha visto appannarsi il cammino verso il proprio futuro.

Sembra quasi impossibile come da due semplici, ed in fondo banali, modalità di circolazione stradale si possa evincere due concezioni così diverse di Stato e di valori che sottendono alla nostra comune convivenza civile; essi sono la riprova che ogni atto sociale ed economico ha al fondo una diversa cultura sottostante che lo determina, basta avere occhi per guardare.

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