Tutti sappiamo che la questione del clima è importante ed urgente, eppure non sembra che si stia facendo molto, che le disuguaglianze sono addirittura antieconomiche, ma anche qui poco o nulla si muove, che occorre fare la pace in Medio Oriente, ma non sembra che qualcuno se ne occupi seriamente, che l’Occidente è preda dei populismi, eppure sembra che si faccia di tutto per aiutarli a vivere piuttosto che il contrario.
Solo per rimanere in Italia, abbiamo avuto due persone (Cottarelli e Perotti) coinvolte nel risparmio della spesa pubblica che hanno fatto proposte concrete e non devastanti, eppure non siamo riusciti a prendere alcuna decisione seria e duratura a tale riguardo. Non riusciamo a fare una riforma della giustizia per i veti incrociati, e la giustizia non è un bene di tutti e farla funzionare meglio non sarebbe un vantaggio di tutti? Ci sono carenze di organico e di mezzi strumentali e non si riescono a trovare i soldi per finanziarli in modo strutturale? Occorre fare anche esempi al contrario: la decisione di Trump di bloccare per tre mesi l’ingresso da sette paesi musulmani, bocciata in questo caso dai tribunali federali.
Sono solo alcuni esempi che però evidenziano, in Italia e nel mondo, le difficoltà a prendere decisioni che sembrano di buon senso eppure non vengono prese.
Ritengo che prima di tutto sia una questione di persone e non di sistemi: la burocrazia europea, quella italiana, il mercato, la politica. Scaricare sull’euro tutte le difficoltà italiane a fare maggiore produttività e creare lavoro non ha senso. L’euro non è una persona che decide con una volontà propria, ma è il risultato di scelte fatte da uomini (più che da donne) concreti: politici, economisti, con tanto di nome e cognome. C’è stata una responsabilità personale esercitata in un dato tempo, luogo, contesto. E’ stata messa una firma su un trattato. Certo c’è stato un processo che ha visto coinvolte moltissime persone, ma poi il tutto si è condensato in una decisione voluta e perseguita da persone concrete che avevano il potere di scegliere per i loro popoli.
Questo è quanto accade ogni giorno: ci sono persone concrete che prendono o non prendono decisioni rispetto ai vari problemi che attraversano la nostra epoca. Ci sono grandi decisori e piccoli decisori e poi le persone che ne subiscono le conseguenze quotidiane.
Chomsky, nel suo libro Chi sono i padroni del mondo, porta numerosi esempi nel mondo di scelte prese dai politici contro l’opinione dei loro popoli. Questo può essere un bene o un male, a seconda dei punti di vista, ma certo segna uno scollamento tra le classi dirigenti e i desideri di popoli che, in fondo, non sono poi così diversi alle varie latitudini: pace e benessere.
Vorrei sottolineare la responsabilità personale di tutti, classi dirigenti e popolo, perché ciascuno di noi ha la sua responsabilità personale, in particolare per quanto riguarda la vita economica.
Sembra che manchi una sensibilità personale di chi decide nei confronti di chi soffre le conseguenze delle scelte di politica economica in senso lato.
Nicola Gratteri e Antonio Nicaso, il primo magistrato e l’altro studioso di ‘ndrangheta, riflettono a voce alta a questo riguardo: «La ricchezza estorta o accumulata dai ‘ndranghetisti viene investita nel circuito economico e sociale, soprattutto nella regioni più ricche del Centronord. Ciò che è illegale non è proibito dal mercato, le cui leggi non rispondono né a quelle dello Stato, né a quelle dell’etica pubblica, né tantomeno a quelle della morale privata.
Il mercato ragiona prevalentemente in termini di costi e benefici. Ciò che è conveniente non deve essere necessariamente etico. E gli interlocutori non sempre vengono selezionati grazie ai meccanismi della due diligence. Imprenditori e professionisti, in molti casi ragionano solo in termini di convenienza. Questo grumo di potere che contribuisce al successo delle mafie è stato definito “capitale sociale”, ma può essere chiamato anche “reciproca utilità” o “fascino del rischio”» (Padrini e padroni. Come la ‘ndrangheta è diventata classe dirigente, Mondadori, Milano 2016, p. 152). E concludono il loro libro con una domanda inquietante: «Fino a quando si continuerà a fingere di non vedere?» (Ibid., p. 194).
Fino a quando non ci prenderemo sul serio le nostre responsabilità personali, in quanto parte di un popolo che flirta con chi gli dà più ragione per continuare a fare i propri interessi – chi più e chi meno – cercando invece promuovere chi cerca il bene comune?