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Secondo vari studiosi, la globalizzazione che stiamo vivendo è soltanto la seconda globalizzazione. Ripercorrere la storia della prima globalizzazione è utile per comprendere meglio quanto sta avvenendo oggi…

Due globalizzazioni
Secondo vari studiosi, la globalizzazione che stiamo vivendo è soltanto la seconda globalizzazione. Un primo grande processo di globalizzazione c’era stato tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Ripercorrere la storia della prima globalizzazione è utile per comprendere meglio quanto sta avvenendo oggi. Gli studiosi che hanno messo a confronto i due processi sono riusciti a individuare alcune importanti analogie oltre alle ovvie differenze. Di recente Gianni Toniolo, uno storico dell’economia, ha sintetizzato questi studi in un articolo scritto per l’inserto culturale del “Sole 24 ore”.

La prima globalizzazione
Nella seconda metà dell’Ottocento, a partire soprattutto dagli anni Settanta, anche per effetto dei grandi miglioramenti nel trasporto internazionale ottenuti con treni e piroscafi grazie al progressivo impiego prima del vapore e poi del petrolio, si realizza una grande crescita dei commerci.

All’espansione commerciale, stimolata dalla libera circolazione delle merci, si accompagnano imponenti flussi migratori, favoriti anch’essi dalle innovazioni nei trasporti. Tra il 1870 e il 1914 circa venti milioni di europei emigrarono nelle Americhe. Il processo di integrazione dell’economia mondiale produsse, nei Paesi inseriti nel mercato globale, prima un livellamento dei prezzi delle merci e poi anche una convergenza dei salari.

Le reazioni alla prima globalizzazione
La prima reazione a questi processi si ebbe nei Paesi europei e fu l’innalzamento di alte barriere doganali, inizialmente per i prodotti agricoli, poi anche per quelli industriali. Fu una reazione a catena che, come nel caso dello scontro commerciale fra Italia e Francia, portò anche a “guerre doganali”. Solo l’Inghilterra rimase fedele al libero scambio, mentre nell’Europa continentale e negli Stati Uniti prevalse il protezionismo, frutto del nazionalismo economico.

La seconda reazione si ebbe nei Paesi di immigrazione e fu la nascita di movimenti xenofobi che diffusero atteggiamenti razzisti fra i lavoratori locali penalizzati (nel livello dei salari e nella ricerca di posti di lavoro) dalla concorrenza degli immigrati. Fin dagli inizi del Novecento furono così progressivamente introdotte misure di contenimento dell’immigrazione: negli Stati Uniti si passò dalle ispezioni sanitarie ai test di alfabetizzazione, fino agli Immigration Acts degli anni Venti del Novecento.

La terza reazione fu il passaggio dal nazionalismo economico a quello politico: è giusto difendere le identità nazionali, ma se si esaspera l’idea di nazione si arriva a un nazionalismo che ritiene la propria nazione superiore a tutte le altre e propugna lo scontro con le altre nazioni. L’ampia diffusione di idee fortemente nazionalistiche viene alimentata dallo scontro in atto per le conquiste coloniali e in particolare per la spartizione dell’Africa fra le varie potenze europee (Italia compresa).

L’esito finale di questi tre processi indotti dalla prima globalizzazione fu la prima guerra mondiale: circa dieci milioni di giovani morti in battaglia, 20 milioni di feriti e invalidi, circa 50 milioni di morti complessivi, anche per la diffusione di epidemie come la “spagnola”.

La seconda globalizzazione
La seconda globalizzazione è quella che si realizza negli ultimi trent’anni. Resa possibile dalle radicali innovazioni tecnologiche connesse all’informatica e alla telematica, che modificano in profondità anche il mondo produttivo mettendo in crisi il vecchio sistema fordista, la seconda globalizzazione viene avviata dalla “deregulation” di Nixon e Thatcher che tolgono ogni vincolo alla libertà di movimento dei capitali.

Le trasformazioni del mondo produttivo e il libero movimento di capitali, beni e servizi modificano radicalmente anche il mondo del lavoro: le imprese si spostano liberamente dove il costo del lavoro è più basso o dove i lavoratori non hanno tutele legislative o sindacali. In un mercato globale non solo le grandi multinazionali, ma anche le grandi e medie imprese nazionali hanno delocalizzato all’estero la produzione mettendo in concorrenza i salariati dei Paesi emergenti con i lavoratori dei Paesi più industrializzati.

Un contributo nella stessa direzione è venuto anche da un altro imponente fenomeno: l’avere a disposizione un gran numero di migranti provenienti dai Paesi meno sviluppati ha permesso agli imprenditori di esercitare una forte pressione al ribasso sui salari, sulle condizioni di lavoro e sui sistemi di protezione sociale dei lavoratori americani ed europei.

Negli ultimi venti anni la fortissima crescita del flusso dei migranti verso l’Europa ha ricevuto notevole impulso da altri fenomeni convergenti: lo scoppio di numerosi conflitti (dal Medio Oriente all’Iraq e all’Afganistan), la siccità e le carestie connesse al cambiamento climatico (soprattutto nelle regioni sub-sahariane), la richiesta di braccia proveniente dai Paesi europei caratterizzati da scarsa natalità e da forte invecchiamento della popolazione.

Analogie e differenze
Le analogie con quanto avvenuto nella fase della prima globalizzazione sono evidenti: innovazioni tecnologiche, apertura dei mercati e grandi migrazioni caratterizzano entrambe le globalizzazioni. Altrettanto evidenti, però, sono le differenze. Nuovo è il contesto (e non solo a livello geo-economico), nuovi sono i protagonisti (basti pensare alla Cina e all’India), nuova è la tecnologia (informatica e telematica) prodotta dalla scienza del nostro tempo.

Tutto questo provoca effetti diversi rispetto al passato: ad esempio le trasformazioni del mercato del lavoro stanno penalizzando i ceti medi; le nuove tecnologie stanno producendo benefici solo sulla fascia di popolazione più istruita e innovativa; infine, mentre con la prima globalizzazione si era avuta una progressiva diffusione del benessere, attestata anche dalla crescita dei consumi di massa, oggi il reddito è tornato a concentrarsi e vi è una forte crescita delle disuguaglianze. Eppure, nonostante queste differenze, le reazioni al processo di globalizzazione sono molto simili.

Le reazioni alla seconda globalizzazione
La prima delle reazioni alla seconda globalizzazione è stata la richiesta di un freno all’integrazione dei mercati: fra le misure spesso invocate vi sono l’innalzamento di barriere doganali (ad esempio per frenare la concorrenza cinese) o l’introduzione di leggi finalizzate a vietare le forme di concorrenza “sleale”.

La reazione più forte è la stata la diffusione di movimenti detti “populisti” che hanno risposto con atteggiamenti xenofobi alla forte crescita del numero degli immigrati. Infine, vi è stata una terza reazione, che è stata definita in vario modo (il “risveglio degli stati nazionali” oppure “il ritorno delle nazioni”), ma che consiste in un riemergere del nazionalismo. La vittoria di Trump negli Stati Uniti è la prova della forza di questi processi. In sostanza siamo di fronte alle stesse reazioni che si erano avute agli inizi del Novecento per effetto della prima globalizzazione.

Altri sguardi

Quella finora richiamata è l’analisi degli storici dell’economia. Pur partendo da altri presupposti, sostanzialmente simili sono le analisi di Tomas Piketty, economista francese divenuto molto noto per il libro “Il capitale del XXI secolo”, e di un antropologo poco noto in Italia, ma autorevole negli Stati Uniti: Arjun Appadurai, indiano naturalizzato statunitense, docente alla New York University.

Piketty sottolinea un dato importante: “Tra la fine dell’Ottocento e il 1914 la fede cieca nell’autoregolazione dei mercati ha provocato disuguaglianze, tensioni sociali, crescita dei nazionalismi, fino alla guerra mondiale”. Dopo, soprattutto nel secondo dopoguerra, c’è stata una fase storica nella quale i governi occidentali “hanno avviato riforme sociali e fiscali, mettendo un freno alle disparità”.

A sua volta Appadurai aggiunge: “Un aumento del nazionalismo, della xenofobia e dell’autoritarismo si registra in tutto il mondo: lo Stato non controlla più la sua economia e quindi cerca di legittimarsi dominando la diversità culturale, la lingua, l’identità, più facili da sottomettere al potere delle forze armate e della propaganda”. Oggi, prosegue Appadurai, in Europa si manifesta “il solito meccanismo storico: la paura per il futuro viene proiettata sui lavoratori immigrati anziché sugli obiettivi reali, che sono le élite nazionali e le loro ambizioni globali”.

Nelle sue conclusioni Piketty è ancora più esplicito: “Purtroppo la crisi del 2008 non ha prodotto alcun cambiamento sostanziale. Se non si riuscirà a dare una risposta con politiche progressiste resterà la tentazione di trovare dei capri espiatori. E ci saranno sempre dei politici che cavalcheranno questi sentimenti: molti dei leader politici e xenofobi appartengono a categorie di privilegiati che spiegano alle classe popolari bianche che i loro nemici non sono i miliardari bianchi, bensì altre classi popolari nere, immigrate, musulmane”.

Verso la terza guerra mondiale?
Resta una domanda finale. Viste le forti analogie tra le reazioni alle due globalizzazioni, stiamo andando verso la terza guerra mondiale? Non è una domanda inutile o provocatoria. Se non si cambia strada, il rischio che l’esasperazione dei contrasti nazionalistici e gli interessi contrapposti delle grandi multinazionali portino a un nuovo conlitto mondiale indubbiamente c’è. I primi provvedimenti presi dal presidente Trump stanno facendo aumentare questi rischi. Come è noto, papa Francesco ha detto che la terza guerra mondiale è già cominciata, anche se viene combattuta “a pezzi”, cioè anche se frammentata in guerre locali.

Fare tesoro dell’esperienza storica del Novecento
Per evitare il rischio concreto che le guerre locali ci portino a una guerra totale occorre fare tesoro dell’esperienza storica del Novecento e lavorare per la pace: gli organismi internazionali (come l’ONU) sorti dopo la Grande Guerra vanno riformati, non cancellati; la comunità europea nata sulle macerie della seconda guerra mondiale va cambiata, non disintegrata; la globalizzazione va governata, ma senza tornare al nazionalismo economico; la speculazione finanziaria va sottoposta a regole; le disuguaglianze e le sperequazioni di reddito vanno ridotte; le grandi opportunità di crescita offerte dalle nuove tecnologie vanno distribuite in modo equo. Parafrasando l’enciclica “Populorum progressio” si può concludere: se vuoi la pace, costruisci un mondo più tollerante, più accogliente, più giusto.

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