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Pubblichiamo volentieri questo articolo di Andrea Michieli, Componente del Centro studi dell’Azione Cattolica Italiana, pubblicato il 27-3-2017 sul sito della stessa associazione

La ricorrenza dell’inizio del processo di integrazione europea ha reso Roma capitale dell’Unione. La Dichiarazione sottoscritta sabato dai 27 Capi di Stato e di governo dell’Unione ha rievocato la storica firma del 25 marzo 1957. Una ricorrenza che è stata ed è l’occasione per pensare il futuro di questa «organizzazione sovranazionale unica nel suo genere» (come la definì la Corte di Giustizia in una celebre sentenza).

Lo scenario attuale è, più che mai, incerto: sembra, infatti, mancare una visione del cammino futuro dell’istituzione europee. Lo stile della costruzione “a piccoli passi”, inaugurata con la celebre dichiarazione Schumann, ha invertito la rotta procedendo verso una lenta erosione dell’edificio comunitario. La Brexit ha attestato il superamento dell’idea dell’irreversibilità del progetto europeo che dominava le generazioni precedenti. In questo contesto, i progetti politici tesi all’uscita dall’Europa sembrano essere gli unici ad avere un appeal sull’elettorato, in assenza di una narrazione alternativa e credibile.

Senza velocità, un’Europa che fa fatica a pensare se stessa
Il dibattito di questi mesi si è concentrato sulle possibili e diverse “velocità” che l’Unione potrà assumere. In altri termini, vista la difficoltà di poter includere tutti i Paesi membri in un’istituzione sempre più coesa, da più parti si ipotizza di creare legami più stretti tra alcuni Paesi su materie specifiche. In realtà, tale possibilità non solo già esiste, ma è stata sempre più usata fin dal Trattato di Maastricht durante il quale terminò il processo unitario di costruzione dell’Europa attraverso il cd. “metodo comunitario”. Da quel momento, fu il Consiglio (ove siedono i Governi) il luogo della decisione e si affermò il metodo intergovernativo. Il cambiamento fu reso necessario dall’allargamento progressivo delle competenze della CEE che non erano previste nei Trattati istitutivi (esteri, giustizia, interni, moneta).

Il metodo intergovernativo, impostosi dopo il 1992, prevede l’unanimità delle deliberazioni del Consiglio (consensus) e ciò ha comportato numerose frizioni e stalli decisionali tra i Capi di governo su materie che contrappongo gli interessi degli Stati nazionali. Le difficoltà, con la crisi del 2008, si sono acuite e hanno reso necessario adottare Trattati internazionali per regolare i rapporti tra gli Stati ed evitare i veti nel Consiglio: è il caso del noto e controverso Fiscal compact. Il dibattito sulle diverse velocità è certamente il segno di un’Europa che non ha velocità, che si è bloccata dinanzi alla difficoltà di trovare una strada politica comune.

La confusione che regna sul futuro dell’UE è resa palese dal recente Libro Bianco della Commissione. Pur valutando positivamente lo sforzo di ragionare sul futuro delle istituzioni comunitarie, la Commissione, organo di indirizzo della politica europea, non propone una strada da perseguire, ma cinque possibili scenari per le istituzioni: sancisce, in certo senso, l’abdicazione di una visione coraggiosa del proprio destino. Le cinque proposte spaziano dal mantenimento dello status quo alla prospettiva di uno Stato federale, passando per la riduzione delle competenze dell’UE. Ciò che lascia più perplessi è la dottrina funzionalista che dal Libro emerge. La Commissione afferma che i cinque scenari proposti nel documento «non fanno riferimento ai processi giuridici o istituzionali» poiché «la forma seguirà la funzione». In democrazia è vero il contrario: che forma e funzione debbono necessariamente andare insieme e la forma – cioè il modo di essere delle istituzioni e ciò che rappresentano – dà significato alla funzione.

In questo dibattito si inserisce la Dichiarazione di Roma, sottoscritta sabato 25 marzo da tutti i rappresentanti degli Stati membri. Sembra che essa imbocchi la strada di una cooperazione rafforzata tra alcuni Paesi, pur mantenendo il mercato unico a 27. In particolare, tale rafforzamento di legami potrebbe venire nel campo della sicurezza e della difesa comune. Ripartire dal “nocciolo duro”, dai Paesi fondatori (Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi) potrebbe rivelarsi come la prospettiva dai frutti più immediati, anche se controversi perché il nodo rimane – soprattutto pensando a materie come la difesa – il progetto politico alla base del rafforzamento multipolare.
Il pilastro sociale per un’Unione politica

Al di là del dibattito sulle diverse velocità, rimane dunque centrale !il problema dei problemi”: la dimensione politica dell’Unione. La CEE nacque – dopo le resistenze dei francesi a condividere una difesa comune – con il precipuo compito di integrare i Paesi in campo economico: l’economia era il grimaldello per una futura integrazione politica. Per alcuni decenni questa prospettiva ha tenuto: si pensava che il mercato potesse essere il motore per l’Unione.

Ad oggi, però, vi è chi teorizza e ha perseguito un disegno di Europa che si fonda solamente su regole economiche comuni: “governing by rules, ruling by numbers” (governare con le regole, regolare con i numeri). La sovranità delle regole fiscali senza una comune politica economica ha generato una schizofrenia istituzionale che i cittadini europei sentono imposta e senza legittimazione. Un sistema di regole che aumenta il divario tra gli Stati e alimenta la disaffezione verso un’istituzione che molto vincola e poco rappresenta.

Come uscire da questo impasse? Una proposta sul tavolo europeo è stata avanzata da Jean Claude Juncker: la creazione di un “Pilastro europeo dei diritti sociali”. Certamente questo non risolverebbe il problema dell’assenza di una politica economica comune, ma aiuterebbe a superare le differenze createsi tra i cittadini europei dopo la crisi (i cd. shock asimmetrici). Si tratterebbe di mettere in campo politiche sociali di dimensione europea che sviluppino una solidarietà più avanzata in campo sociale. La proposta del nuovo Pilastro, dopo essere stata sottoposta ad una consultazione pubblica lo scorso anno, sarà oggetto, in primavera, di un Libro bianco della Commissione.
L’istituzione del Pilastro dei diritti sociali avrebbe, inoltre, un significato simbolico perché farebbe finalmente tramutare l’Unione Europea da semplice “mercato” economico a “comunità” politica responsabile dei diritti di tutti i suoi cittadini.

Cosa possiamo sperare dopo le celebrazioni
Le ricorrenze di questi giorni hanno stimolato il dibattito sul futuro dell’Unione. Sessant’anni fa, il mondo era diviso in due blocchi contrapposti e l’Europa nasceva come terreno di confine tra quei due mondi contrapposti, oltre che dalla necessità di porre le basi per una pace duratura. Oggi il mondo è divenuto multipolare e non ci sono spinte esterne che aiutino un balzo in avanti dell’integrazione, come nel 1957. Proprio per questo l’Europa deve trovare da sola la propria strada di integrazione, ripartendo dalla complementarietà tra forma e funzione, tra mercato e politica, tra libertà e diritti. Deve creare istituzioni comuni e separate, in grado di condividere il potere e di rappresentare le differenze. Come affermò Joseph Bech al momento della firma dei Trattati di Roma: «La Comunità economica europea vivrà e avrà successo soltanto se, durante la sua esistenza, resterà fedele allo spirito di solidarietà europea che l’ha creata e se la volontà comune dell’Europa in gestazione è più potente delle volontà nazionali». L’Europa deve e può tornare a queste radici.

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