Mi sono rifiutato di seguire i programmi in televisione sul virus, però ho letto molto su giornali e riviste. Difficile dire a questo punto qualcosa di nuovo e di interessante. Ci sono però pensieri, alcuni sotto forma di interrogativi, che mi ritornano in mente e che vorrei condividere.
Il primo riguarda il fatto che il regime politico di un paese non ha fatto la differenza nell’approccio al virus. Si poteva pensare che i regimi autoritari propendessero per un sistema più chiuso e quelli democratici per uno più aperto. Le politiche adottate sono dipese invece più dalle culture di ciascun paese che da altri fattori. In Cina, per esempio, quando c’è stata la chiusura, dopo i primi tentativi di insabbiare l’epidemia, è entrato a regime il dispositivo di «gestione sociale a griglia». Esso prevede la divisione della popolazione in 650.000 unità di base, rurali o urbane, sorvegliate da milioni di membri del partito comunista e da volontari che, con termometro carta e penna, hanno controllato che i cittadini rispettassero le disposizioni previste delle chiusure e hanno aiutato coloro che avevano dei bisogni (spesa, medicine, solitudine, ecc.). Questo dispositivo affonda le sue radici nella dinastia Song (960-1279) che lo aveva ideato per poter gestire dal centro la periferia dell’impero.
Negli USA, invece, il presidente Trump ha segretato le riunioni in cui si discute su come intervenire per fermare la pandemia, non divulgando per esempio quanti posti in terapia intensiva con respiratori sono disponibili, per non dare un vantaggio strategico al “nemico” cinese dando un segno di debolezza. Inoltre il governo federale e il congresso hanno varato un piano impressionante per vastità di interventi e quantità di dollari, ma molti stati (in particolare – ma non solo loro – quelli a governo democratico, primi fra tutti la California) hanno lamentato uno scarso coordinamento e intervento federale, debole nel prendere l’iniziativa soprattutto a livello sanitario, concentrandosi invece sulle conseguenze economiche della pandemia. L’Italia ha preferito perseguire, dopo i primi ritardi, la via della salvaguardia della salute dei cittadini, i quali sono rimasti chiusi in casa, soprattutto nelle regioni più colpite con una disciplina impensabile sino ad ora, dando prova di una cultura condivisa di sacrificio in nome di un bene comune. Vedremo come andrà la fase 2.
Il secondo pensiero riguarda la battaglia mediatica e ideologica su chi ha infettato chi: i militari USA ai campionati mondiali militari di ottobre 2019, il laboratorio di Wuhan (cui hanno lavorato anche statunitensi e francesi), il mercato di Wuhan, ecc. Perché tale battaglia quando il vero problema è come uscire dalla pandemia? Altre battaglie si sono accese su: Chi ha aiutato chi? Chi arriverà per primo al vaccino? Chi lo userà prima per sé e poi per gli altri: gli USA che volevano comprare in esclusiva il brevetto di una ditta tedesca che la Merkel ha impedito? Gli Usa e la Cina che non partecipano al programma comune mondiale di ricerca del vaccino per cui sono stati raccolti ingenti somme con una sottoscrizione pubblica. Sono tutti segnali che ognuno, e soprattutto chi conta di più dal punto di vista geopolitico, vogliono continuare a segnare punti in favore della loro vera o presunta egemonia sul resto del mondo. E’ una partita geopolitica a due, USA e Cina, che vede però altri attori regionali, medie potenze, cercare un loro spazio e una continuità con i loro obiettivi di lungo periodo. La geopolitica, di fatto, non è contagiata dalla pandemia. Anzi, ne sembra immune. Tutti a minimizzare e a mostrare come si possono sopportare cittadini morti e disoccupati (in particolare gli Stati Uniti) in quanto potenza mondiale, fossero danni collaterali sopportabili nella guerra per mantenere o conquistare la supremazia mondiale.
Il terzo pensiero riguarda l’Unione Europea, che ha fatto tanto sospendendo i vincoli di bilancio e di aiuti di stato, nonché il programma da 540 miliardi di euro per varie necessità, ma che ha mostrato tutta la sua fragilità di confederazione di stati, sia nei tempi che nel pensare a un intervento comune (i Recovery bond) che molti giudicano necessario ma che vede una disputa tra gli stati che dovrebbero aiutarsi e che invece, anche loro, pensano più ai loro interessi nazionali che a condividere politiche per il bene comune dei cittadini europei.
Il quarto riguarda la questione della sanità. Il 50% degli apparati respiratori per le terapie intensive sono prodotti in Cina. In Italia alcune ditte che li producono stanno cercando di aumentare la produzione, ma occorrono investimenti che producono effetti nel tempo. La questione dei tamponi, che tutti dicono essere necessari per reagire prontamente a nuovi focolai di infezione ma che vede alcune difficoltà tecniche legate alla varietà dei modi di analizzarli e ai reagenti necessari. Anche qui si è andati in ordine sparso, ma soprattutto ognuno per sé, invece di uno sforzo comune. C’è poi il problema del terzo mondo che ha sistemi sanitari carenti da molti punti di vista, ma di cui sulle nostre pagine di giornali c’è poca o nessuna traccia, come sempre su ciò che riguarda le vicende del mondo un po’ più in là del nostro naso. Abbiamo visto come i modelli regionali non siano uguali e del diverso risultato nel contenere la diffusione e la cura del virus. Qui davvero il dopo virus non dovrà essere come il prima, ma ne saremo capaci?
Infine la questione religiosa, spinosa come sempre, ma che in Italia si è ridotta a: messe sì, messe no, messe online. Al di là del fatto che è una questione legata al tempo dell’emergenza acuta, e non è questione fondamentale per sempre, occorre tenere presente che questa emergenza ha fatto emergere molte solidarietà dentro la chiesa cattolica – e anche fuori di essa –, un patrimonio civile che non può essere dimenticato in fretta. Come spesso ci diciamo siamo in mezzo a un cambiamento epocale che viene dal Concilio Vaticano II che vede ancora compresenti tratti di chiesa antica e germi di chiesa nuova.
Come dice Ghislain Lafont, un eminente teologo monaco benedettino: da una chiesa fede e sacramenti a una chiesa Vangelo e dono dello Spirito. Si tratta di accenti, non di sostanza, infatti una chiesa senza fede e sacramenti non esiste, come non esiste una chiesa senza Vangelo e dono dello Spirito. Accenti che dipendono dalla cultura del tempo, dal tipo di società di un certo periodo storico. Accenti che chiedono un discernimento e una obbedienza allo Spirito che si è manifestato in un Concilio ecumenico e che è stato accolto con gioia dal popolo di Dio.
Se il dopo non sarà almeno un poco diverso dal prima, se questa pandemia non ci permetterà di cambiare, forse a fatica, ma di fatto abbiamo già fatto una esperienza di vita che ci ha segnato e ci ha cambiato materialmente e spiritualmente, a cosa sarà servito tutto questo nostro stare in casa per non infettarci? Ai posteri l’ardua sentenza, a noi provare a cercare strade nuove di convivenza in vista di quel bene comune che vale la pena di perseguire, anche se molti preferiscono pensare prima, e forse anche solo, a se stessi, nonostante sia evidente che solo insieme possiamo vivere bene e meglio.
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