Può essere libero un Paese con un grande squilibrio socioeconomico, dove pochi controllano la gran parte dei beni e delle risorse e dove la maggioranza ha un ruolo servile e di accondiscendenza? Quale reale libertà può avere la maggior parte della popolazione, ma anche quelle minoranze della classe privilegiata che dissentono e vorrebbero stabilire rapporti più equi ed umani?
Molto si dibatte sulle deformazioni delle nostre democrazie, in cui la ricchezza finanziaria attraverso le lobby ed il potere mediatico manipolano la volontà della popolazione e sovente riescono ad imporre il governo di magnati, interessati soprattutto a conservare i propri privilegi, piuttosto che promuovere il bene comune.
Del resto Ben nel 1989 (anno cruciale, di svolta) faceva uno dei suoi quadri/proclama che gridava La liberté ou la mort.
Per ragionare su equità ed uguaglianza, credo sia opportuno focalizzarmi sui più diseguali e disperati, coloro che svolgono i lavori più umili, sovente senza diritti, senza parola e comunque profondamente incompresi dalla nostra società, che ne ha una percezione errata e distorta, ossia i migranti.
I migranti sono una quota significativa della nostra popolazione, peraltro molto inferiore a quanto percepito; 5 milioni di persone in Italia pari all’8% dei residenti ; di questi oltre la metà sono europei per cui gli extraeuropei pesano meno del 4% della popolazione; perlopiù svolgono i lavori più umili che ormai noi non vogliamo fare. I migranti sono il 10,5% della popolazione attiva (immigrano soprattutto quelli in età lavorativa), ma ben oltre l’80% del personale domestico, il 20% dei lavoratori nelle costruzioni ed il 13% nell’agricoltura. Da notare un dato che sottolinea la tragica sperequazione: nel 2013 gli infortuni ai danni dei lavoratori stranieri hanno rappresentato il 15,6% degli infortuni e il 16,1% degli infortuni mortali . Hanno titoli di studio sovente elevati, ma sono impiegati con mansioni di basso livello; spinti dalla disperazione e dalla necessità si adattano a fare qualsiasi lavoro sia loro richiesto, sovente in condizioni imposte di irregolarità e mancanza di protezione sociale.
Contrariamente alle accuse di dissipare le risorse nazionali, contribuiscono alla ricchezza del paese producendo l’8% del PIL: senza il loro lavoro la crisi economica di questi anni sarebbe stata ancora più grave. Nel 2013 vi erano in Italia 316.000 titolari d’impresa nati extra UE, per quasi 4/5 nel commercio, nelle costruzioni e nell’artigianato, che sovente danno occupazione anche ad italiani. Le imprese i cui titolari sono stranieri, anche nati nella UE, sono 497.000 (l’8,2% del totale). Ma di più: i migranti danno un rilevante contributo netto al bilancio del nostro Paese con un valore aggiunto di 85 miliardi di euro; più di 3,5 milioni di nuovi contribuenti «hanno dichiarato redditi per 44,7 miliardi di euro (mediamente 12.930 euro a persona), incidendo per il 5,6% sull’intera ricchezza prodotta». E danno perfino un contributo netto molto importante al Bilancio dello Stato, con un saldo finale in attivo di 3,9 miliardi , quasi quanto il peso dell’IMU sulla prima casa che, dunque, senza di loro avrebbe dovuto essere raddoppiata. Senza di loro la popolazione diminuirebbe: la tendenza all’invecchiamento della popolazione italiana è stata frenata proprio dalla crescita rilevante dalla componente immigrata, mediamente molto più giovane di quella italiana.
Il Ministero del Lavoro in diversi scenari al 2024 prevede la necessità dell’accoglienza almeno di molte centinaia di migliaia/milioni di altri migranti, solo per mantenere l’attuale capacità produttiva e di reddito del Paese; soprattutto nel Nord Italia (dove la presenza di migranti è già oggi necessaria e più rilevante) l’offerta di lavoro nativa non basterà a far fronte alle esigenze del sistema produttivo.
Uguali e diseguali
Nella nostra esperienza di vita i più uguali, per dirla con Orwell , sono quelli che più possono avvalersi delle buone relazioni sociali (e questo vale ovunque, ma in maniera ben più accentuata nel nostro Paese), che si sviluppano per una pluralità di fattori, come l’appartenenza di classe e familiare; la cultura, i riferimenti ideali, le scuole frequentate che comportano una rapida riconoscibilità come persona con le stesse sensibilità; il prestigio derivante dal potere politico ed amministrativo e dal censo e che comporta capacità di scambio; la paura degli stessi diversi che serve a mobilitare noi contro gli altri, superando le distinzioni di classe e di appartenenza.
Anche gli “eguali” di altre culture risentono del peso del censo; nel Sud Africa dell’apartheid mentre i cinesi erano ritenuti coloured, i giapponesi invece erano considerati bianchi, perché evidentemente di censo e con capacità economica e culturale ritenuta comparabile. Così un ambasciatore o uno scrittore africano è ritenuto come noi, ben diverso da quei poveri migranti…
E poi anche i nostri diseguali, pure se nativi come noi, ci appaiono così diversi, così rozzi, così meschini o limitati…
Molto viva è la testimonianza di Gary Younge, giornalista nero del Guardian, per anni corrispondente dagli USA, alla fine deciso a tornare a vivere in Inghilterra perché il razzismo e l’irriducibile paura del diverso gli facevano temere per il futuro di suo figlio.
Dunque chi sono i più diseguali? Certamente gli altri diversi e temuti, su cui la narrazione diffusa genera paura, i neri negli USA, i palestinesi in Israele, gli sciiti in Arabia Saudita, i tibetani o gli uiguri in Cina … e poi i migranti, soprattutto se poveri.
Noi italiani siamo stati migranti, ed abbiamo subito discriminazioni, persecuzioni e stragi quando siamo andati in America, Germania, Australia, dove abbiamo dato un forte contributo alla crescita di quei Paesi. “Non c’è massacro contro i nostri nonni emigrati, da Tandil in Argentina a Kalgoorlie in Australia, da Aigues Mortes in Francia a Tallulah negli Stati Uniti, che non sia nato dallo scoppio di odio dei «padroni di casa» contro gli italiani che «rubavano il lavoro». Basti ricordare il linciaggio di New Orleans del 15 marzo 1891, dove tra i più assatanati nella caccia ai nostri nonni c’erano migliaia di neri, rimpiazzati nei campi di cotone da immigrati siciliani, campani, lucani. Eppure quei nostri nonni contribuirono ad arricchire le loro nuove patrie”.
Una causa determinante delle migrazioni era la povertà nella terra di partenza. Ed anche oggi la causa delle attuali migrazioni, che tanto ci preoccupano, siamo noi occidentali con la nostra politica predatoria, continuata imperterrita negli ultimi decenni: se noi avessimo pagato anche solo negli ultimi 30 anni il giusto per i prodotti del terzo mondo, i flussi più consistenti verso tali paesi (pur incidendo poco sui nostri conti) avrebbero messo a loro disposizione maggiori risorse per investire, studiare e far crescere le loro società, diminuendo consistentemente il tasso di disperazione.
Invece per secoli stabilirsi in altri paesi è stato un fatto normale della vita: se non ti piace il posto dove vivi, se non ti piacciono i tuoi vicini, se ti sei annoiato della tua piccola città, se sogni un’avventura, prepari lo zaino e ti metti in cammino verso l’ignoto.
E’ curioso considerare che le prime barriere all’immigrazione sono state erette negli USA negli anni ‘80 dell’800 per bloccare l’immigrazione di tedeschi ed irlandesi, che si temeva avrebbe alterato la composizione etnica del Paese…
L’accoglienza è un fatto etico e di rispetto della dignità umana
Immanuel Kant sostiene il “diritto cosmopolita” di libera circolazione degli uomini in tutto il mondo, ossia che ciascuno ha diritto di essere accettato semplicemente in quanto uomo in qualunque paese senza essere considerato come nemico . Molto interessante è anche la motivazione che porta, che risiede nella proprietà comune della superficie terrestre.
Già Socrate, secondo Epitteto, diceva “Io non sono né un ateniese né un greco, bensì io sono un cittadino del mondo” . Chi vuole tenere chiuse le frontiere cita sovente Platone , ma ritengo che oggi le sue osservazioni ci indichino piuttosto che l’inserimento dei migranti vada regolato nel quadro degli ordinamenti che organizzano la nostra società.
Dopo la tragedia della lunga guerra del secolo breve, la Dichiarazione universale dei diritti umani , firmata a Parigi il 10 dicembre 1948 – promossa dalle Nazioni Unite perché avesse applicazione in tutti gli stati membri – riprendeva molti contenuti della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789. La Dichiarazione universale dei diritti umani afferma all’Art. 1 che: “Tutti gli uomini nascono liberi ed eguali in dignità e nei diritti. E devono agire gli uni gli altri in spirito di fraternità”.
La libertà e l’eguaglianza in dignità e nei diritti si completa con la richiesta di agire verso gli altri in spirito di fraternità, la terza grande parola-guida della Rivoluzione francese. In questi principi trovano le loro motivazioni l’accoglienza e l’ospitalità del migrante. Ed allora quale accoglienza riservare a chi cerca una nuova vita tra di noi?
Se quest’elaborazione è avvenuta soprattutto in ambito europeo, terra delle più efferate violazioni di tali principi, anche altrove maturavano riflessioni analoghe. La Carta della confraternita Mandinga del 13° secolo, riferimento per l’impero del Mali, dichiara: “L’uomo come individuo …. ha il diritto di fare quello che desidera fare…” e quindi anche di scegliere liberamente dove vivere.
Del resto accordi e convenzioni internazionali tendono ad assicurare la mobilità delle merci e dei capitali, ma la mobilità delle persone sovente invece è bloccata. Perché questo privilegio solo alle merci ed ai capitali?
Però, come sempre, alcuni sono più uguali degli altri: “i britannici possono andare in 173 paesi senza visto, i nigeriani in 44. Solo poche persone con passaporti di certi colori sono libere di muoversi su questa Terra. Solo gli eletti possono viaggiare e lavorare senza difficoltà in qualunque luogo del pianeta” . Ma tutti vogliamo un lavoro migliore, un clima migliore, alloggi più economici, licei migliori, un costo della vita più basso.
Perché alcuni possono viaggiare in cerca di opportunità migliori e altri no? La realtà è che se sei di una certa zona del mondo puoi attraversare la frontiera per perseguire la felicità, mentre se sei di un’altra zona non puoi. Soprattutto l’Europa – continua Chubundu Onuzo, scrittrice nigeriana nata a Lagos nel 1991 – con la sua storia recente di imperi brutali e predatori dovrebbe sapere qualcosa di desideri di conoscenza di altri mondi e di altre terre, ma anche della disperazione che spinge a tentare e ritentare.
Papa Francesco ribadisce che “bisogna rafforzare la consapevolezza che siamo una sola famiglia umana. Non ci sono frontiere e barriere politiche o sociali che ci permettano di isolarci, e per ciò stesso non c’è nemmeno spazio per la globalizzazione dell’indifferenza.” (…) “Un vero approccio ecologico diventa sempre più un approccio sociale che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto quello dei poveri”.
E l’accoglienza ed il rispetto vanno estesi oltre gli uomini e sono dovuti a tutti i viventi.
Ma perché tante resistenze ed ostacoli?
Perché vien meno il senso di fondamentale tolleranza, per quanto simulata, ed avanza una cultura razzista che ora, perfino nel linguaggio comune, si esprime liberamente?
“Gli immigrati creano anche un mucchio di problemi? Sì. Portano a volte malattie che da noi erano ormai sconfitte? Sì. Affollano le nostre carceri soprattutto per alcuni tipi di reati? Sì. Vanno ad arroccarsi in fortini etnici facendo esplodere vere e proprie guerre di quartiere? Sì. E questi problemi vanno presi di petto. Con fermezza. C’è dell’altro, però. E non possiamo ignorarlo. ”
Molti sono i timori che mobilitano la gente dietro slogan populistici: da una parte la paura di essere sommersi e di perdere la propria cultura ed identità e dall’altra la percezione di ostacoli concreti, di cui non si vede soluzione (non siamo in grado di accoglierli, non abbiamo le risorse necessarie), unita alla grettezza (quello che dividiamo con loro lo togliamo ai nostri figli). Sono tutti timori ingiustificati.
La nostra cultura è il frutto di innumerevoli scambi ed arricchimenti, frutto di invasioni e movimenti di popolazioni nei millenni, e i nuovi apporti la arricchiscono; certamente vi sono grandi problemi pratici, ma gli stessi migranti, nel rispetto della nostra cultura ed organizzazione sociale, sono una risorsa per affrontarli e risolverli, e soprattutto il gioco non è a somma zero, ma con il lavoro dei migranti la “torta” si allarga e le opportunità crescono.
Sappiamo che le pulsioni razziste non si manifestano solo in Italia: lo stesso fenomeno appare nei paesi arabi verso i neri, in Sudafrica verso gli immigrati dagli altri paesi della regione, in Giappone verso i coreani e gli stranieri in genere.
Così paesi come l’Europa, il Giappone e la Cina affrontano un declino demografico che i più accoglienti Stati Uniti non conoscono, e questo comporta a lungo termine un significativo ridimensionamento anche delle capacità produttive. Come sarà e che peso avrà il Giappone, così ostile all’immigrazione, quando la sua popolazione sarà dimezzata?
Da una recente indagine ISPI e RaiNews commissionata a IPSOS per rilevare l’opinione degli italiani in merito alla percezione del fenomeno migratorio emerge un quadro allarmante. La percentuale dell’opinione pubblica che ritiene l’immigrazione la principale minaccia per l’Italia registra un clamoroso balzo in avanti rispetto alle rilevazioni dei mesi precedenti, fino quasi a raddoppiare (dal 13 al 25%). Un dato ancor più significativo se paragonato a quello della crisi economica che dallo scorso dicembre perde il 27% e a quello sul terrorismo islamico che negli ultimi tre mesi crolla dal 35 al 21%. I risultati del sondaggio non sembrano rispecchiare i dati reali sul fenomeno migratorio, certamente significativi e in aumento, ma non da emergenza nazionale. A pesare sembrano essere piuttosto i continui messaggi che parlano "alla pancia" degli italiani, favoriti da una copertura mediatica senza precedenti e da una strumentalizzazione del tema.
Inoltre solo un’esigua minoranza di italiani (2%) considera l’immigrazione come una risorsa per il paese. Il 67% degli intervistati pensa che le migrazioni rappresentino una minaccia alla sicurezza italiana e tra questi il 38% ritiene che possa addirittura far aumentare il rischio di infiltrazioni terroristiche, malgrado finora non esista alcuna evidenza al riguardo.
Meno del 30% crede invece che si tratti di un fenomeno inevitabile e di lungo termine, che non minaccia direttamente l’Italia e vada invece gestito al meglio.
A fronte di un 16% di italiani che pensa sia doveroso accogliere i rifugiati, il 39% ritiene sia necessario mettere in atto provvedimenti decisi quali i respingimenti alle frontiere o l’adozione di misure militari. La stessa percentuale crede che il modo migliore per affrontare le tematiche dell’immigrazione in Italia sia l’avvio di trattative con i paesi di transito per fermare i migranti, prima ancora che possano raggiungere le coste italiane.
Nonostante le posizioni molto forti sui metodi di contrasto dell’immigrazione clandestina da adottare in Italia, l’opinione pubblica è fortemente contraria ad erigere nuovi "muri" in Europa. La maggioranza degli italiani si esprime negativamente in merito al muro sul confine serbo–ungherese: una quota di ben oltre il 70%, se si considerano solo gli italiani che erano al corrente della notizia.
Evidentemente nel nostro paese vi è bisogno di un grande lavoro educativo e di corretta informazione per riportare il tema delle migrazioni alla sua reale dimensione.
E qui riprendo alcune significative riflessioni di Laurie Penny, che tornata in Inghilterra si ritrova a vivere in un paese razzista ed ossessionato dai migranti. “Non che l’Europa ed il nostro paese non siano stati gretti e razzisti, ma la retorica xenofoba, islamofoba e, ovviamente contro i migranti, impera dovunque”. La vera vittoria dei gruppi estremisti non consiste nell’andare al governo, ma nell’imporre la loro agenda, e lo fanno con grande abilità, giocando su una ben orchestrata percezione della “crisi” dell’immigrazione: la fortezza Europa deve difendere le frontiere da quella inondazione, da quella marea. “Anche se i migranti arrivati in Europa nel 2014 dai paesi straziati dalla guerra o dal cambiamento climatico o da dittature sono appena lo 0,027% della popolazione europea, dicono che non possiamo assolutamente permettere che continuino a venire”. E questo perché l’Europa ha bisogno di un nemico comune, per convincere le popolazioni martellate dall’austerità e dal caos economico che il nemico è li fuori e che c’è un “noi” che deve essere difeso da un “loro” .
Le migliaia di disperati che annegano nel Mediterraneo vengono percepiti come “predatori” stranieri che bisogna fermare perché arrivando in Europa potrebbero mettere a rischio il nostro “tenore di vita” e “modo di vivere”. “E’ quel terrificante “loro” che dà la falsa impressione che ci sia un noi da difendere”. La minoranza che viene presa di mira deve scatenare la paura in tutte le classi sociali: lo spauracchio prescelto viene, pertanto, presentato in maniera paradossale e caricaturale, come avvenne per gli ebrei negli anni ’30.
E’ difficile stabilire se i migranti sono un problema perché lavorano tanto da prendersi tutti i posti di lavoro (la maggior preoccupazione della classe lavoratrice colpita dalla disoccupazione e dal taglio dei salari) o perché sono troppo pigri per lavorare e quindi si prendono tutti i soldi dell’assistenza (la maggiore preoccupazione delle classi medie colpite dall’aumento dei prezzi e dai tagli dei servizi). Le due cose non possono essere e non sono vere entrambe, ma è importante che il paradosso rimanga, perché unisce classi sociali molto distanti contro il nemico comune esterno.
Quando richiedente asilo è diventato sinonimo di criminale, l’Europa è diventata un continente più cattivo e più meschino. Comunque l’umanità e la decenza sono volutamente superate: quando la gente si lascia prendere dal panico, non sente più ragioni.
Se migliaia di persone sono così disperate da rischiare la morte per raggiungere le nostre coste, il nostro disagio per il fatto che vengano a vivere nel nostro quartiere non dovrebbe essere il fattore decisivo per le scelte politiche. E la stampa di sinistra non ha meno colpe: quando alcuni mezzi d’informazione più compassionevoli ci ricordano che i migranti in realtà arricchiscono la nostra cultura e costituiscono un vantaggio economico, anche se questo è assolutamente vero, non è meno offensivo.
Se i migranti vengono in occidente da paesi dilaniati dalla guerra come la Siria, l’Eritrea o l’Afganistan o da qualsiasi altro posto del mondo un tempo colonizzato od oggetto di sfruttamento colonialistico, occupato e derubato delle sue risorse, “non lo fanno per arricchire la vita degli occidentali o per ravvivare con qualche spezia la nostra insipida cucina.” Vengono perché temono per la loro vita, vengono per chiedere asilo, sicurezza ed opportunità ed hanno tutto il diritto di farlo, se non per legge, in base ai principi di giustizia e di umanità.
La più grande minaccia al nostro modo di vivere non è l’immigrazione – che se pure cambia la società, incide certamente meno della tecnologia, dell’austerità economica, della disuguaglianza, della globalizzazione o del cambiamento climatico – è di farci convincere che i migranti che vengono dai Paesi non europei sono meno umani di noi, pensano e sentono meno e contano di meno. La vera minaccia al nostro modo di vivere è che svapori la nostra compassione e capacità di comprensione e di accoglienza.
E qui torna anche la nostra percezione del welfare, che va inteso non come elemosina di stato, ma come riconoscimento dei diritti economici e sociali dei cittadini del mondo, ossia delle persone che vivono con noi e contribuiscono ad edificare la nostra società.
Riprendendo la scrittrice Onuzo, “non esistono barriere tanto alte da impedire agli esseri umani di avere aspirazioni. Non esistono oceani così vasti da poterci impedire di sognare. Aprite il mondo in modo che tutti possano muoversi liberamente. Oppure chiudete le frontiere e lasciate che ognuno torni a casa e veda quanto diventa povero e triste il mondo quando siamo tutti costretti a restare nel posto in cui nasciamo.” Come canta Mighty Shadow, cantante di calypso di Trinidad “Oggi se entri in un paese straniero ti chiamano alieno/ Devi spiegare all’ufficio immigrazione che intenzioni hai. / Colombo non dovette farlo. Non avrebbe avuto senso. / La sua autorità era un cappello a tesa larga e il suo passaporto era la violenza”.
Un’altra grande scrittrice nigeriana, Chimamanda Ngozi Adichie, in Americanah mette in bocca ad una brava fanciulla britannica “occorre avere buon senso e fare in modo che questo Paese rimanga un rifugio. Le persone sopravvissute a guerre terribili devono assolutamente essere accolte!”; e quindi Obinze, personaggio chiave del romanzo, riflette che queste buone persone “capivano tutti la fuga dalla guerra, dal tipo di povertà che distruggeva l’animo umano, ma non avrebbero capito il bisogno di scappare dall’opprimente letargia dell’assenza di scelta. Non avrebbero mai capito perché le persone … cresciute con cibo ed acqua abbondanti, ma impantanate nell’insoddisfazione, abituate fin dalla nascita a guardare altrove, da sempre convinte che la vita vera fosse altrove, ora fossero decise a fare cose pericolose, illegali come partire; nessuno moriva di fame o subiva violenze o veniva da villaggi bruciati, ma aveva semplicemente sete di scelte, di certezze”.
Obinze con le manette ai polsi, trascinato in aeroporto per il rimpatrio in Nigeria guarda “la donna bianca che procedeva in fretta, i capelli che le svolazzavano all’indietro, lo zaino come la gobba sulla schiena. Lei non avrebbe capito la sua storia, il motivo per cui attraversava l’aeroporto con quel metallo stretto ai polsi, perché le persone come lei non affrontavano i viaggi con l’ansia del visto. Poteva preoccuparsi dei soldi, dell’alloggio, della sicurezza, forse persino di come ottenere un visto, ma mai con l’ansia da torcerle la spina dorsale”.
In altra parte del romanzo Ifemelu, la protagonista di Americanah, ascolta perplessa i giovani amici americani progressisti e di buoni sentimenti “benvestiti e pieni di sé … Ifemelu perlopiù stava ad ascoltare parlando poco e guardandoli meravigliata: facevano sul serio, queste persone che si infuriavano tanto per le verdure importate che maturavano sul camion? Volevano fermare il lavoro infantile in Africa. Non volevano comprare i vestiti fatti dagli operai sottopagati in Asia. Guardavano il mondo con una serietà luminosa e inattuabile che la commuoveva, ma non la convinceva.”
Anche i nostri buoni sentimenti di accoglienti uomini di sinistra sono in grado di capire il sentire, le aspirazioni, l’impegno, la fatica di questi fratelli migranti?
Quale contributo degli immigrati alla nostra società
Credo che noi riceviamo dagli immigrati un indubbio arricchimento in termini di innovazione e crescita della nostra cultura; in questi secoli europei curiosi hanno portato tante novità dagli altri continenti, ed ancora più possono fare i migranti. E poi partecipando alla produzione del reddito arricchiscono le nostre società, rendono sostenibili i nostri sistemi di welfare e con il lavoro delle loro giovani generazioni, portano nuova occupazione.
Ma soprattutto, come sottolinea Laurie Penny con l’accoglienza nella nostra società, ci aiutano a far crescere in noi nuovi valori, un nuovo senso di umanità e ci aiutano a sviluppare una nuova società accogliente. “Una società che tenta anzitutto e con i mezzi di cui realisticamente dispone di risollevare i poveri, per non creare un mondo a due velocità. Lo fa con l’attenzione a tutti i poveri, a quelli che non hanno il lavoro o lo hanno perso, a quelli che provengono da zone più povere ed economicamente arretrate, a quelli che non sono in grado di difendersi".
Ecco perché penso, in linea con il pensiero di Socrate e di Kant, che l’ospitalità che dobbiamo offrire noi europei non vada offerta solo per i rifugiati politici, economici od ambientali, ma per chiunque abbia sete di nuove scelte.
Ma quale tipo di accoglienza dobbiamo offrire? Non certo l’inattività nei centri di accoglienza o in un limbo. Dobbiamo, invece, cambiare radicalmente le nostre modalità di sostegno e ridurre al minimo il periodo in cui i migranti non lavorano e non vengono inseriti nella nostra società, per non lasciare margini alla disperazione e a tentazioni di devianza. Dobbiamo ad esempio impegnarli subito, in vista di un inserimento già nella fase di prima accoglienza, in lavori socialmente utili di cui la nostra società ha bisogno, come per la qualificazione delle nostre città o contro il dissesto idrogeologico.