Quando nei primi anni ’90 in molti dal mondo associativo, in particolare dalla Fuci e dalle Acli, fummo tra i promotori primi dei referendum elettorali, due erano i binari dentro cui volevamo che, a differenza di quel triste periodo di degenerazione del sistema dei partiti, scorresse la vita politica nazionale.
Il primo era che il cittadino potesse essere direttamente arbitro della scelta dei Governi, con una coerenza stringente tra consenso, potere e responsabilità, secondo l’insegnamento di Ruffilli, ucciso pochi anni prima. Impossibile oggi farlo senza ricorrere a un premio di maggioranza con una sola Camera titolare del rapporto fiduciario, altrimenti si sarebbe costretti, con tutta evidenza, a una grande coalizione permanente. La Corte aveva bocciato lo specifico premio della legge Calderoli perché il premio non era congegnato senza una soglia minima di consensi, ora individuata al 37% dei voti in un primo turno e, in mancanza, in un ballottaggio nazionale.
Vi è così una risposta seria a quanto richiesto dalla Corte, sono infatti vari i sistemi europei con formule diverse che intorno a quella soglia di voti fanno ragionevolmente conseguire una maggioranza assoluta in seggi (dall’Inghilterra maggioritaria alla Spagna e alla Grecia proporzionali) ed è conseguito l’obiettivo del cittadino come arbitro. Si può migliorare cambiando i numeri, rendendoli più esigenti? Se si può è meglio, ma non è una buona ragione per negare il bene già presente.
Il secondo era che la selezione dei rappresentanti potesse avvenire uscendo dall’autoreferenzialità della politica e delle forti lobbies organizzate, che invece il meccanismo delle preferenze in grandi circoscrizioni premiava in modo quasi esclusivo. Per un minimo di apertura ai non professionisti della politica e agli esponenti delle lobbies ormai da anni bisognava guardare al solo Senato, dove vigeva un sistema uninominale sia pure imperfetto, dato che le grandi circoscrizioni della Camera esigevano organizzazioni personali forti con risorse economiche ingenti per la raccolta delle preferenze, mentre i partiti diventavano quasi solo contenitori elettorali di queste organizzazioni.
L’obiettivo allora era il collegio uninominale maggioritario, che però è vissuto dal centrodestra dal 1994 in poi uno strumento in cui è più avvantaggiato il centrosinistra, che non è neutro rispetto ai risultati. Dato che il sistema uscito dalla Corte riproporrebbe i difetti del sistema pre-1993 e che la Corte ha censurato le lunghe liste bloccate di decine di nomi, non si può ritenere un punto di equilibrio un sistema da 4 a 6 nomi che vanno sulla scheda e in cui praticamente tu sai che ti stati esprimendo per i capilista? Si tratta di una sorta di collegio uninominale allargato, certo più vicino all’uninominale vero che non alle liste della Calderoli. A me sembra ragionevole e comunque migliore del male costituito dalle preferenze, su cui valgono ancora le critiche che facemmo allora.
Per questo, fuori da ogni massimalismo, è giusto riconoscere nell’Italicum già uscito dalla Camera una legge perfettibile, ma che cammina già con evidenza nei due binari ragionevoli in cui volevamo ricondurre la politica vent’anni fa.