La rivolta dei pastori sardi trova le sue ragioni nell’incapacità dei ceti dirigenti di accompagnare verso un percorso di sviluppo un sistema produttivo complesso, il quale dopo essere uscito dal tradizionale assetto pastorale dell’isola, non si è mai inserito da protagonista nel moderno contesto globale

La rivolta dei pastori sardi trova le sue ragioni nell’incapacità dei ceti dirigenti di accompagnare verso un percorso di sviluppo un sistema produttivo complesso, il quale dopo essere uscito dal tradizionale assetto pastorale dell’isola, non si è mai inserito da protagonista nel moderno contesto globale.

La crisi del comparto lattiero-caseario della Sardegna viene da lontano. È infatti dagli anni ’70 che tale comparto si è fossilizzato nella monoproduzione di quel particolare tipo di Pecorino detto “romano”. Un formaggio che ai sardi non piace, tanto da essere quasi esclusivamente destinato all’esportazione, verso la penisola o all’estero. Esso incombe sull’economia sarda dal giorno in cui, sul finire dell’800, alcuni commercianti laziali ne introdussero la tecnica di lavorazione; e dal giorno in cui (nel 1907) un medico condotto, Pietro Solinas, apriva a Bortigali la via alle latterie sociali cooperative.

Dunque, abbiamo nell’economia agricola sarda monoproduzione di un formaggio e monomercato prevalentemente statunitense: entrambi basati su una concorrenza da costo che tende a rendere fragili gli attori più deboli della filiera. Su di essi si sono scaricati gli andamenti altalenanti del prezzo del latte ovino.

I numeri della crisi

In Sardegna ci sono quasi 3 milioni di pecore distribuite in oltre 12mila allevamenti. Un sistema che produce una montagna di latte, che necessariamente inflaziona il prezzo al ribasso. Tutto questo latte diventa “Pecorino romano” che è un prodotto di scarso valore. Non si guasta in tempi rapidi e mantiene le sue caratteristiche inalterate. È una commodity e come tale subisce gli effetti di un’elevata volatilità sul mercato globale. Dal 2000 le esportazioni sono crollate per la competizione con prodotti analoghi provenienti da altri Paesi europei: Francia, Spagna, Grecia e Romania. Con la crisi economica del 2008 sono poi aumentati i costi di produzione: mangimi, elettricità, gasolio, ecc. Tutti questi elementi hanno contribuito a schiacciare il reddito dei produttori, determinando l’insorgere di forme di lotta, anche radicali, guidate dal Movimento dei Pastori Sardi e tese a rivendicare una maggiore retribuzione del prezzo del latte.

A partire dal 2012 c’è stata una leggera ripresa del prezzo del latte, attestandosi nel 2013 con quotazioni attorno ai 72-75 centesimi, che sono ulteriormente cresciute fino ad arrivare in qualche caso anche ad un euro al litro. Negli ultimi due anni il prezzo è di nuovo calato, tant’è che l’Antitrust, il 14 febbraio 2018, ha annunciato di avere aperto un’istruttoria con l’obiettivo di verificare se i caseifici abbiano imposto un prezzo inferiore ai costi medi di produzione. È trascorso un anno ma l’indagine non è ancora completata.

La vertenza

Tale ritardo ha costituito il pretesto immediato per la ripresa di una tipica forma di lotta che dal ’68 in poi viene adottata in tutte le rivolte rurali: riversare il latte o altri prodotti nelle strade. Non è il ribellismo delle società tradizionali quando si occupavano le terre e s’incendiavano i municipi. È il ribellismo delle campagne trasformate quando s’inceppa il meccanismo dell’innovazione e non si adottano politiche per rimetterlo in moto. E quando rovinosamente s’interviene con sussidi a pioggia anziché incoraggiare gli agricoltori ad accettare la sfida del nuovo contesto tecnologico e globale.

Bisognerebbe, infatti, concentrare le risorse nel sostegno a programmi per l’innovazione, la costruzione di reti, la diversificazione delle attività, la creazione di nuovi mercati. E realizzare una rete di welfare a beneficio di chi si troverebbe senza lavoro per aiutarlo a trovarne un altro. Ma per attuare una strategia siffatta occorrerebbe adeguare istituzioni, centri di ricerca, sistema educativo e organizzazioni.

Sono sicuramente necessarie misure per smaltire le eccedenze e ritirare le giacenze. Il Consorzio per la tutela del Pecorino romano deve effettuare una programmazione produttiva efficace e credibile. Va, inoltre, ratificato l’accordo CETA per facilitare le esportazioni anche verso il Canada.

Innovazione e tradizione

Ma non basta. Bisognerebbe produrre un’innovazione sociale che parta dal rafforzamento delle capacità dei produttori di ripensare il proprio modello organizzativo, imboccando la strada della multifunzionalità. Si tratta di rivitalizzare, in forme moderne, un aspetto del mondo pastorale tradizionale, quando pastorizia e agricoltura s’integravano per garantire l’ottimizzazione delle risorse e la sopravvivenza economica.

Già oggi sono numerose le aziende che hanno smesso di conferire ai caseifici per tornare alla trasformazione diretta del latte, con il recupero di tecniche di lavorazione a mano e la costruzione di minicaseifici aziendali. I formaggi realizzati, prevalentemente a latte crudo, sono destandardizzati e territorialmente connotati: si “distinguono” per aspetti come la qualità del pascolo, il periodo di mungitura, il tipo di lavorazione eseguita. Le innovazioni sono state effettuate conservando il sistema di allevamento estensivo, basato sul pascolamento a cielo aperto con integrazione di erbai.

In tale evoluzione si consolidano le “agricolture multi-ideali” così chiamate perché si riferiscono a passioni, vocazioni e concezioni del mondo plurime, da cui scaturiscono modelli produttivi e di consumo e attività molteplici. Queste nuove realtà vanno dall’agricoltura sociale a forme inedite di accoglienza nelle campagne, dalla realizzazione di filiere e reti di qualità che guardano con occhi diversi ai processi di globalizzazione (reti di popoli) alla costruzione di distretti di economia locale.

La multi-idealità va ora aperta alla bioeconomia, alla robotica e alle tecnologie digitali che permettono di promuovere relazioni economiche e sociali e indurre nuovi comportamenti alimentari. Come sostiene Leonardo Becchetti, se si sviluppasse nei consumi alimentari il mercato delle informazioni sul rating sociale e ambientale e i cittadini-clienti fossero consapevoli e decidessero tutti insieme di votare col portafoglio per le imprese migliori, vincerebbero quelle tecnologicamente più avanzate che hanno meno bisogno di puntare al ribasso sul costo del lavoro e di distruggere le risorse ambientali.

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