Molti, ad esempio, sono ancora scettici sul ruolo che le politiche del lavoro svolgono nei processi di sviluppo. E’ ancora molto diffusa la convinzione che abbiano un mera funzione assistenziale e che comunque ad esse non possa essere attribuito un ruolo di promozionale del lavoro. Una importante cartina al tornasole di tale atteggiamento culturale è rappresentata dal comportamento che hanno avuto i media rispetto al tema degli incentivi introdotti dal Governo all’inizio del 2015.
Si è parlato di interventi automatici troppo costosi e poco efficaci nonostante abbiano generato in un anno una forte crescita dei contratti di lavoro standard (+ 46%). Con l’ultima legge di stabilità il Governo li ha significativamente ridotti (nella logica di un naturale décalage) ribadendo in più di un occasione che gli interventi del 2015 volevano generare un shock di mercato e che proprio per evitare comportamenti opportunistici da parte delle imprese la loro funzione sarebbe stata progressivamente ridimensionata. Ma ciò non è bastato. Infatti appena il numero di nuovi contratti standard è calato a causa della riduzione degli incentivi, (a gennaio 2016 – 39% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente), immediatamente dai media si è alzato un grido di dolore sugli effetti del Jobs Act. Si tratta di un’evidente comportamento schizofrenico che per altro non tiene minimamente conto del fatto che la riforma interviene sull’intero quadro delle politiche del lavoro ed in particolare sui processi di attivazione che dovrebbero essere gli strumenti complementari alle misure di riordino degli incentivi e delle forme contrattuali.
Ma sulle difficoltà di riordinare le politiche attive è calato il silenzio e nessuno, a parte qualche voce isolata, si è ricordato che la legge è stata fin ora applicata solo a metà, solo cioè per le parti di natura “automatica” ossia i contratti, gli ammortizzatori sociali e gli incentivi mentre è rimasta ancora sulla carta (per i ritardi e le resistenze) la parte dedicata alle politiche attive ossia il diritto dei disoccupati di partecipare a programmi di reinserimento al lavoro, per gran parte di competenza delle regioni. E’ questo il gap culturale che scontiamo da sempre. Eppure si tratta di una componente essenziale della riforma, quella che invece può agire di più sulle dinamiche di sviluppo e sull’occupazione.
Prendiamo il caso dei giovani. Come dimostrano i dati dell’INPS per classe di età le giovani generazioni sono quelle che hanno beneficiato di meno per gli incentivi che invece hanno avuto un effetto molto significativo per i lavoratori adulti. Perché? Potrebbero essere fornite numerose spiegazioni ma quella più ragionevole è che per i giovani agiscano molto più efficacemente le politiche attive degli incentivi. Nel mercato del lavoro italiano le asimmetrie informative sono molto rilevanti e penalizzano in modo particolare le giovani generazioni.
Le imprese faticano a contrattualizzate un giovane di cui non conoscono ne le competenze professionali ne il possibile comportamento aziendale (proprio per mancanza di informazioni sulle competenze possedute) e quindi preferiscono lavoratori esperti di età più avanzata. Non a caso in Garanzia Giovani hanno funzionato soprattutto i tirocini (tipica politica attiva che ha anche una componente formativa) e moto meno i bonus (incentivi all’assunzione). Avrebbe funzionato bene anche l’apprendistato se non fosse organizzato (per la parte formativa) in modo così bizantino per altro con modalità diverse da regione a regione. In sostanza gli automatismi per i giovani funzionano poco e sono le politiche attive (formazione legata alle imprese, sistema duale, tirocini) a garantire i processi di transizione. In altre parole le politiche attive hanno questa funzione: favorire l’ingresso nel mercato delle categorie più penalizzate mentre gli incentivi agiscono soprattutto sui lavoratori che hanno maggiori livelli di occupabilità. E siccome i dati ci dicono che lo svantaggio produce diseguaglianza e le diseguaglianze bloccano i processi di crescita economica, è proprio sulle politiche attive che si dovrebbe investire maggiormente. E le risorse non mancherebbero se le regioni fossero in grado di utilizzare pienamente i fondi europei. Ma per farlo occorrerebbe avere chiari gli obbiettivi e le strategie di intervento cosa che ancora non sembra all’ordine del giorno proprio per quelle carenze culturali che contraddistinguono la visione che il nostro paese ha sulle politiche del lavoro.