Nella strategia del leader della Fiom convivono idee riformatrici, anche interessanti, ma iscritte in un contesto di pensiero politico nato e cresciuto dentro la fabbrica fordista che oggi non esiste più. Siamo in una nuova era geologica di cui tutti facciamo fatica a comprendere gli sviluppi.

Abbiamo utilizzato questa immagine non certo per significare che Landini, capo indiscusso della Fiom, abbia la “lingua biforcuta, quanto piuttosto per indicare che nella sua strategia convivono idee riformatrici, anche interessanti, ma iscritte in un contesto di pensiero politico nato e cresciuto dentro la fabbrica fordista elettromeccanica che non esiste più.

Andiamo con ordine, altrimenti rischiamo fraintendimenti, anche gravi. Che il sindacato, tutti i sindacati confederali Cgil compresa, abbia dei problemi da risolvere, è chiaro a tutti. Il peso spropositato dei pensionati, la diminuzione dei lavoratori dell’industria, la corporativizzazione delle categorie del terziario, sono dati oggettivi che non hanno bisogno di commento; ma ci sono altri elementi importanti che Landini dice di volere affrontare e risolvere.

Nella ricerca spasmodica di soldi per alimentare una macchina sempre più grande ed elefantiaca, tutte le organizzazioni sociali, sindacato compreso, si sono trasformate in un elemento di consenso se non al governo, quantomeno al sistema. La vacuità dei corsi professionali, con la complicità delle Regioni, è in alcuni casi palese; i Patronati che con l’informatizzazione e un regime legale-pensionistico ormai stabilizzato ed in grado di dare risposte direttamente al cittadino, rischiano di essere, in alcuni casi, un doppione degli sportelli Inps.

I Caaf, che ormai hanno poca identità sindacale, se mai l’hanno avuta, eseguono le pratiche fiscali più semplici che la corporazione dei commercialisti non sarebbe in grado di sopportare. Da notare infine che i metodi di reclutamento del personale addetto a queste mansioni sono esattamente uguali a quelli di una qualunque azienda privata: precariato.

Infine c’è il piano più squisitamente politico-sindacale. Con l’aggravarsi della crisi economica si è andato manifestando una tendenza che comunque era antecedente: la difesa ad oltranza della posizione raggiunta senza alcun coinvolgimento di tutti gli altri che ne rimanevano fuori. In una parola si è assistito ad una progressiva corporativizzazione delle categorie e non è un caso se nelle regioni del nord, degli iscritti alla Cgil, i simpatizzanti della Lega sono circa il 20%.

Il processo di corresponsabilizzazione, avviato negli anni ’60 e ’70 che vedeva il sindacato attore primario nella gestione di molti Enti, si è trasformata in un pantano di scambio di favoritismi, anche personali, che nulla hanno a che fare con l’idea stessa di sindacato. Ogni volta che veniva chiuso un contratto con le Ferrovie, dopo sei mesi, il sindacalista diventava dirigente delle FS (Moretti era un dirigente sindacale, noi non ce lo scordiamo), fino ad arrivare ai gradini più bassi per cui era il sindacato che indicava le persone da assumere (soprattutto nelle aziende pubbliche e partecipate).

Nell’istituto dei “distacchi” sindacali c’è una contraddizione di fondo: il sindacalista è pagato dalla sua controparte e questo ingenera equivoci e connivenze. Landini sa benissimo che questo stato di cose condurrà a morte certa il sindacato italiano, per questo dice (e opera) per una trasformazione radicale del sindacato stesso, agganciandola al territorio e ai soggetti sociali più deboli anche se esclusi dal lavoro, ed in questo opera nel solco antico della tradizione tutta Cgil, basti pensare a Bruno Trentin. Da questo punto di vista Cisl e Uil sono molto più indietro nell’elaborazione culturale e politica.

Ma di Landini esiste anche un’altra faccia che ancora pensa la fabbrica della prima metà del ‘900: una fabbrica elettromeccanica in cui è facile apprendere il processo di produzione, ma soprattutto una “grande” fabbrica taylorista e antagonista con il capitale.

Spesso ci siamo chiesti se la fabbrica fordista elettromeccanica esista ancora; la risposta è no. Innanzitutto la fabbrica stessa ha perso la sua centralità culturale di luogo razionale per eccellenza: essa non rappresenta più il modello a cui si informa l’intera società. Poi, la grande fabbrica fordista in Italia non ha mai prevalso: essa rappresenta a malapena il 10 % della forza lavoro occupata e non si può pretendere di adattare tale modello al restante 90, fatto da piccole e piccolissime imprese dove il “padrone” lavora a fianco del suo dipendente e spesso ne condivide anche la vita sociale senza considerare che gli addetti all’industria sono passati dal 50% al 25 nel giro di quaranta anni.

La produzione nel nuovo millennio è mutata radicalmente rispetto al secolo precedente. Se nella fabbrica elettromeccanica del ’900 era possibile produrre senza il consenso del lavoratore, con l’avvento dell’informatica tutti sono compartecipi alle strategie aziendali e per questo danno il meglio di loro stessi. Se la centralità è passata dal come produrre a come vendere, la soddisfazione del cliente è un punto decisivo della produzione e non la si raggiunge senza il coinvolgimento di ogni singolo lavoratore.

La società informatica ha un ulteriore corollario: il sapere effettivo è in mano ad una ristrettissima cerchia di persone che attraverso la “programmazione” limitano fortemente la libertà di scelta che ognuno di noi aveva in passato. Alla catena di montaggio il lavoro era alienato, ma poi ognuno compiva le scelte che desiderava: il computer è “programmato” e quindi risponde secondo un percorso ben preciso e voluto da altri. Per la prima volta i concetti di “funzione” e “funzionamento” sono scissi in 70.000 anni di storia dell’Homo sapiens.

Infine l’impossibilità di incidere e persino capire ogni singolo atto di lavoro e di vita “programmati” toglie a ciascuno di noi la possibilità, assai remota anche in passato, di gestire direttamente la fabbrica e, per la sua centralità, anche lo Stato: è la fine di un postulato fondamentale del comunismo. Landini sente bruciare sulla sua pelle la crisi e le contraddizioni del sindacato, dice, e gli crediamo, che il sindacato vuole e deve essere un soggetto politico, ma non si è accorto che tutto è cambiato attorno a lui e che ormai gli occhiali con i quali leggeva la fabbrica fordista del ‘900 ormai sono inservibili. Siamo in una nuova era geologica e facciamo fatica a comprenderne gli sviluppi; come fossimo sul molo del porto a salutare il ritorno di Colombo dal nuovo continente.

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