Quest’anno i punti salienti del Rapporto sono sostanzialmente due: uno di tipo più fenomenologico, costruito dai ricercatori della Fondazione intorno al concetto di capitale sociale inagito. Il secondo decisamente più interpretativo attiene alla metafora delle sette giare usata sapientemente da De Rita per raccontare una società a-sistemica, organizzata per compartimenti stagni ciascuno autoreferente ed utile solo a se stesso.
Siamo un Paese dal capitale inagito perché non riusciamo più a valorizzare il nostro patrimonio più grande: le risorse umane, culturali e imprenditoriali di cui disponiamo. Agli oltre 3 milioni di disoccupati si sommano i quasi 2 milioni di inattivi scoraggiati ed i 3 milioni di persone che, pur non cercando attivamente un impiego, sarebbero disponibili a lavorare.
Si tratta di un capitale umano inutilizzato enorme (8 milioni di italiani) cui si aggiungono gli occupati part time involontari (2,5 milioni nel 2013, raddoppiati rispetto al 2007), gli occupati “sospesi” (240 mila lavoratori in cassa integrazione) ed i lavoratori sottoinquadrati, (4 milioni) tra cui rientrano ormai due terzi dei laureati e persino un ingegnere su tre. Ma non è finita. Siamo incapaci di valorizzare anche la nostra più grande eredità, il nostro incredibile patrimonio artistico e culturale che non produce valore. Il numero di lavoratori nel settore della cultura (304.000, l’1,3% degli occupati totali) è meno della metà di quello di Regno Unito (755.000) e Germania (670.000), é di gran lunga inferiore rispetto a Francia (556.000) e Spagna (409.000). Nel 2013 il settore ha prodotto un valore aggiunto di 15,5 miliardi di euro (solo l’1,1% del totale del Paese) contro i 35 miliardi della Germania e i 27 della Francia.
Altrettanto inagito è il nostro capitale imprenditoriale, condizionato ormai da una atonia diffusa. Dal 2008 si è registrata una flessione degli investimenti di circa un quarto. Ma a una così accentuata flessione delle spese produttive, non ha corrisposto un analogo peggioramento dei conti delle imprese. Dal 2008 a oggi il margine operativo lordo si è mantenuto elevato e a tratti crescente, la liquidità delle imprese è passata dai 238 miliardi di euro del 2008 ai 279 miliardi del 2013 (+17,3%) ed il patrimonio netto è aumentato negli anni della crisi arrivando a pesare nel 2013 5,8 volte l’ammontare degli investimenti effettuati. Un fenomeno che non ha precedenti, che testimonia come lo spirito imprenditoriale del grande capitalismo italiano si sia ridotto alla atonica cultura della rendita.
Ma come spiegare questa atonia che attanaglia la società italiana? E’, infatti, a questo punto della narrazione che entra in campo la straordinaria capacità interpretativa di De Rita che con la metafora delle sette giare, appunto, spiega le ragioni dell’inagito. La profonda crisi della cultura sistemica induce il Paese a vivere in orizzontale. Interessi e comportamenti, individuali e collettivi, si aggregano in mondi non dialoganti. Non comunicando, vivono in se stessi e di se stessi. L’attuale realtà italiana viene rappresentata come la "società delle sette giare", cioè contenitori caratterizzati da una “fermentazione interna”, di cui, senza processi esterni di scambio e di dialettica, non beneficia nessuno.
Nella prima giara ribollono i poteri sovranazionali che sempre più condizionano il nostro quotidiano, senza che mai il risultato corrisponda alle aspettative collettive. La finanza internazionale si regola e ci regola attraverso lo strumento del mercato e le istituzioni europee con procedure che vivono di vita propria, senza innervare una reale dialettica con le realtà nazionali.
La seconda giara contiene la politica nazionale che non riuscendo a generare aspettative ed a modificare i circuiti di potere (più o meno leciti) vive di conflittualità fine a se stessa.
La terza giara è quella delle istituzioni che vivono in una dinamica tutta loro: grandi enti pubblici vuoti di competenze il cui funzionamento è appaltato a società esterne di consulenza o di informatica, personale pubblico (anche giudiziario) che sente la tentazione di fare politica o passa a occupare altri ruoli (di garanzia o di gestione operativa), un costante rimpallo delle responsabilità fra le diverse sedi di potere, rincorse infinite fra decisioni e ricorsi conseguenti. La giara sobolle senza alcuna efficacia collettiva.
La quarta giara contiene quelle che una volta erano le minoranze vitali, gli imprenditori del made in italy concentrati sull’export e sulla presenza internazionale nel manifatturiero, nell’agroalimentare, nel turismo, nel digitale, nel terziario di qualità. Anche loro ormai vivono di autoreferenza, tendono a non fare gruppo. Preferiscono vivere ancorati alle loro dinamiche aziendali, riducendo le relazioni verso l’esterno.
La quinta giara contiene quello che resta della società civile. È un altro mondo che ormai senza grandi pulsioni collettive vive di se stesso. Non ci sono più le aggregazioni intermedie (sindacali, professionali, sociali) ed al posto dei fermenti che l’hanno alimentata negli anni oggi è rimasta solo la sospensione delle aspettative, o la rivendicazione di nuovi diritti nella sfera individuale.
Nella sesta giara ribolle il brodo del sommerso. Consente a famiglie e imprese di reggere, è il riferimento adattativo di milioni di italiani che si nascondono, occultando lavoro, reddito, risparmio, anch’esso sommerso, in nero, cash. Il mondo del sommerso rinforza così l’estraneità alle generali politiche di sistema e continua ineffabile a prosperare.
Ed in fine la settima giara, i media. Incardinati al binomio opinione-evento, i grandi media si allontanano dal rigoroso mandato di aderenza alla realtà e di sua rappresentazione. Preoccupati solo della competizione per il primato, restano chiusi nella giara ribollendo solo della propria fermentazione. La pratica diffusa del selfie è l’evidenza fenomenologica della concezione dei media come specchi introflessi piuttosto che strumenti attraverso i quali scoprire il mondo e relazionarsi con esso.
Le sette giare chiuse e sigillate appaiono, quindi, incapaci di fertilizzare con il loro contenuto la realtà che le contiene. L’augurio che il Censis rivolge a tutti agli italiani è che i contenitori si aprano e che la grave atonia autoreferente possa essere superata attraverso la crescita della politica come funzione di rispecchiamento e orientamento della società, come arte di guida, riprendendo la sua funzione di promotore dell’interesse collettivo, se si vuole evitare che la dinamica tutta interna alle sette giare porti a una perdita di energia collettiva, a una inerte accettazione dell’esistente.