Cosa può insegnarci la storia economica italiana? Quale può essere la strada per uscire dal declino? Come dotarsi degli stessi strumenti su cui poggiano le economie forti del continente europeo? La Dottrina sociale cristiana ed il nuovo paradigma dell’economia civile, antica tradizione di pensiero del nostro Paese, possono aiutare l’Italia, la sua classe dirigente, i cittadini responsabili ad uscire da un lento e lungo declino per entrare in una fase storica di prosperità. La nuova classe dirigente, che sta emergendo a livello politico, imprenditoriale e del Terzo Settore, è chiamata a scegliere la via più difficile, quella di una democrazia partecipativa e decidente allo stesso tempo, quella degli stessi fondamentali delle economie forti europee, con una maggiore attenzione ai beni comuni e alla felicità pubblica.
Su questa strada impervia bisognerà sbarazzarsi velocemente di corruzione, corporativismi, veti incrociati, allergia alla progettazione ultradecennale, inefficienza della Pubblica Amministrazione, evasione fiscale, mafie e scarso senso civico. È l’unica via per uscire dalla traiettoria ventennale del declino. L’Italia ha percorso nei secoli fasi di prosperità e di recessione. Dopo i successi del Novecento, sembra essersi arenata in una lunga stagnazione, unica tra i grandi Paesi europei. Come è stato possibile passare dal boom al declino? Quale ruolo hanno giocato la perdita di competitività dei fattori produttivi, la crescente disuguaglianza nella distribuzione del reddito tra Centro-Nord e Sud, l’assetto politico istituzionale e le classi dirigenti nella fase di ascesa e in quella di degrado?
Guardando il nostro Paese in una prospettiva millenaria, si può affermare: «Nel corso dei suoi duemila e cinquecento anni di storia, l’Italia è stata a lungo, e in diverse epoche, l’economia più ricca e fiorente del mondo» (Felice 2015: 11). Nello stesso tempo si può dire: «L’essenza del miracolo italiano fu questa: di aver creato una ricchezza che non si trasformò in potenza, ma si trasformò in bellezza. Se questa è decadenza, la si può accettare con sereno orgoglio. Ogni cultura che s’irradia consuma, come una candela, il corpo da cui trae luce» (Ruffolo 2004: 288).
Quali le cause di questa patologia? L’Italia si rivela a se stessa come il grande malato d’Europa, dopo la grande discontinuità alla fine della Seconda Guerra mondiale, dopo il boom degli anni Cinquanta. La divergenza dagli altri Paesi europei, nel periodo 1992-2015, si era già manifestata negli anni 1861-1896. Si è profilata una «grande convergenza con due code». (Toniolo 2013: 51). Dal 1896 al 1992 si è verificata una lunga ascesa, fino a convergere con gli altri Paesi europei. Vedremo se l’Italia saprà riprendersi, come in passato, da una crisi sistemica. Per ora registriamo, nei tempi più recenti, un’«età dell’oro» (1950-1973), cioè una lunga fase di espansione keynesiana e di intervento pubblico, e poi un’«età d’argento» (1973-1993) con la crisi petrolifera e il declino con la seconda globalizzazione e un nuovo assetto multipolare, dopo il crollo dell’Unione Sovietica (1993-2015) (Felice 2015: 64).
In questo periodo possiamo notare inoltre un accentuarsi del divario tra Centro-Nord e Sud, a causa di un patto di tipo clientelare tra i gruppi dirigenti meridionali e quelli nazionali. Si tratta comunque di una storia di successo secolare dalla fine dell’Ottocento agli anni Ottanta del Novecento. È un caso virtuoso riguardo agli indici di sviluppo umano (Human Development Index, HDI) in termini di reddito, istruzione e aspettativa di vita o, in altre parole, di risorse, conoscenza e longevità.
Il capitalismo italiano si è caratterizzato per il sistema produttivo dei distretti industriali di piccole e medie imprese. Purtroppo queste da sole oggi non riescono a produrre la ricchezza di un grande Paese avanzato, poiché non arrivano ad investire in ricerca e sviluppo e dispongono di poche risorse per la commercializzazione. Per entrare nei settori più innovativi e generare un valore aggiunto più alto, sarebbe stato necessario convertirsi in grandi imprese o incrementarsi per effetto di politiche pubbliche attive e non a sostegno di posizioni di rendita con incentivi a pioggia a finalità elettoralistiche. S’è quindi verificata un’evidente involuzione soprattutto per responsabilità di una certa politica. Il capitalismo di Stato avrebbe dovuto trasformarsi per andare a rafforzare la grande impresa con incentivi mirati, orientamenti strategici, buona amministrazione, infrastrutture, ricerca e sviluppo. Tutto a servizio anche delle piccole e medie imprese, in direzione dell’innovazione. Questo processo non si è realizzato. Il sistema finanziario, anche pubblico, si è preoccupato di conservare le dinastie familiari ed ha promosso acquisizioni e strategie di diversificazione scarsamente preoccupate delle sinergie produttive.
Stretto è stato, pertanto, il nesso tra declino, storia economica, storia istituzionale e politica. Hanno prevalso le «istituzioni estrattive» per usare la locuzione di Daron Acemoglu e James Robinson (Acemoglu, Robinson 2013).
Il potere, attraverso la risoluzione dei conflitti, è stato mantenuto nelle mani di una élite chiusa con strategie di accesso limitato. Si sarebbe invece dovuta favorire una strategia di accesso aperto con valorizzazione del merito e con l’autonomia tra istituzioni economiche sofisticate e quelle politiche. Mafia, camorra, fascismo, la commistione tra politica e clientelismo economico non hanno certo aiutato il passaggio ad un ordine ad accesso aperto.
Le produzioni italiane possono tornare competitive, in regime di cambio forte, se si specializzano lungo la catena alta del valore aggiunto, quella dei settori a maggiore innovazione tecnologica che meno soffrono la concorrenza di economie emergenti. Sono necessari enormi investimenti in ricerca e sviluppo, pubblici e privati, oggi a livello insufficiente, appena l’1,3% del PIL contro una media OCSE del 2%. Occorre dotarsi di capitale umano, tecnologia, efficienza dei sistemi amministrativo, scolastico, giudiziario, delle istituzioni in generale. Siamo passati attraverso il primo capitalismo, fondato sulla grande impresa privata, il secondo, basato sulle imprese pubbliche ed il terzo, quello dei distretti industriali. Ora si profila il quarto capitalismo, quello delle multinazionali tascabili, come Merloni, Tod’s, Luxottica, Brembo, Pininfarina. Le medie imprese del quarto capitalismo hanno un rilievo importante per qualificare lo sviluppo italiano degli ultimi decenni.
Quali sono allora le cause dell’ascesa e del declino? Tra gli anni Sessanta e Ottanta del Novecento qualcosa si è rotto nel processo di sviluppo del sistema produttivo italiano. Si è innestato un circolo vizioso che, nonostante i tentativi di riforma degli anni Novanta, ha indebolito sempre più la capacità dell’Italia di produrre ricchezza. Il cosiddetto «compromesso senza riforme» caratterizza il nostro Paese, secondo Fabrizio Barca (Barca 1999).
Manca una visione strategica condivisa da una classe dirigente mentre ci s’illude che la locomotiva Italia continui a correre senza riforme. Gli anni Ottanta sono stati definiti un decennio perduto, rispetto ad interventi strutturali soprattutto per rendere più efficiente lo Stato, per uscire da posizioni di rendita come mondo imprenditoriale, per rafforzare i livelli di capitale umano e sociale. Si è così consolidato un sistema socio-istituzionale di tipo semi estrattivo.
Il ruolo della classe dirigente in Italia ed in Europa
Si tratta di far uscire l’Italia, che si è arenata negli ultimi quindici anni, da una lunga recessione economica e dalla decadenza dei valori civici e della creatività culturale. Serve un assetto socio-istituzionale che favorisca la selezione di una più ampia classe dirigente, riducendo l’importanza del capo carismatico, di un uomo solo al comando. L’alternanza normale tra schieramenti, la lotta a corruzione e clientelismo, la contendibilità delle cariche, il senso civico dei cittadini, le scelte degli elettori influenti nel decidere di cambiare classe dirigente, possono farci uscire dalla crisi strutturale.
Il Paese ha bisogno di maggioranze coese intorno ad un programma chiaro per attuare riforme definite ed efficaci, di una classe dirigente onesta, competente e lungimirante. Vanno bene pesi e contrappesi ma, alla fine, la democrazia deve essere in grado di decidere.
La vera sfida, in conclusione, sarà ora quella di trasformarsi in classe dirigente di cultura europea e di alimentare una spinta dal basso per il cambiamento con la società civile organizzata in reti del Terzo Settore, in direzione di un nuovo modello di sviluppo, fondato sull’economia civile, nella tradizione di Antonio Genovesi e sulla DSC, in particolare sull’ economia inclusiva della Evangeli Gaudium di papa Francesco. È un’economia che, integrata nella società, non cede alle seduzioni dell’iperindividualismo ma si orienta ai beni comuni, con un’altra idea di mercato, quella dell’umanesimo italiano che sa distinguere utilità da felicità pubblica.
Dalla crisi italiana ad un nuovo modello di sviluppo
La lunga e grave crisi esplosa nel 2007-2008 non può essere compresa con le solite categorie. Si tratta infatti di capire quali siano le cause del fallimento del modello di sviluppo neo-liberista che in Italia, come nel resto del mondo, ha segnato l’egemonia culturale degli ultimi decenni che si è manifestata unitamente ad una catastrofe occupazionale. Finanziarizzazione dell’economia, commodification, denormativizzazione significano desoggettivizzazione individuale e collettiva, desocializzazione della persona, depoliticizzazione della società, secondo l’articolata analisi di Laura Pennacchi (Pennacchi 2015: 11). A questo punto è l’idea stessa di homo oeconomicus a dover essere messa in discussione, con tutta la sua semplicistica povertà antropologica, con la riduzione della persona a macchina calcolatrice che massimizza mezzi rispetto a fini dati. Si mette in discussione un modello di sviluppo fondato su un soggetto che A. Sen definisce «sciocco razionale» (Sen 2006: 168). Per rovesciare il drammatico declino italiano, occorre ritornare alla ricchezza dell’economia civile che ha sempre saputo fertilizzare reciprocamente economia, filosofia, antropologia, sociologia.
La crisi italiana è strutturale a causa di un trentennale modello di sviluppo drogato e distorto. Per uscire dalla crisi serve una rivoluzione di pensiero come negli anni Trenta del Novecento. Per evitare di entrare nella secular stagnation deve essere disinnescato il meccanismo di deregolamentazione/innovazione finanziaria/indebitamento/sperequazione disugualitaria dei redditi/crisi dell’investimento produttivo e dell’occupazione. L’economia non può invadere tutte le dimensioni del vivere e dominare progressivamente sulla politica, che ha la responsabilità della qualità della sfera pubblica e dell’indicazione dei fini alle persone, ai cittadini non ridotti a idioti sociali. Insomma, dobbiamo riscoprire la vocazione del pubblico, fare spazio ad uno Stato strategico che indirizzi con la programmazione, incentivi, disincentivi e stabilisca delle regole, nel quadro di un nuovo modello di sviluppo che reintroduca i fini ad una dimensione antropologica, socievole e relazionale, dopo l’epoca dell’individualismo iperpossessivo.
Il capitalismo ha bisogno di una riforma radicale come quella degli anni Trenta del Novecento, dopo la grande crisi del 1929, in direzione della democrazia economica, della partecipazione, del voto con il portafoglio e dell’impresa socialmente responsabile. Il nuovo modello, impregnato di neoumanesimo, non sarebbe credibile dopo la job catastrophe senza un piano straordinario di creazione di lavoro, reindustrializzazione, terziarizzazione qualificata, riqualificazione ambientale dei territori, delle città, progetti di cultura, istruzione, salute, ben oltre la supply side economics neoliberista e la tragica politica dell’austerity dell’ordoliberalismo.
L’Italia economica deve ripensare se stessa per ritrovare il proprio posto nel mondo. Nella realtà industriale italiana troviamo ancora molti casi di imprese virtuose, di successo sui mercati internazionali. Si tratta di imprese di taglia intermedia, di un’imprenditorialità vigorosa ma che non ha la forza di sostituirsi ai campioni del passato. Giuseppe Berta invita a riconsiderare con coraggio gli assetti imprenditoriali di oggi e a valutare con realismo il nostro potenziale economico e industriale. (Berta 2016: 11). Occorre considerare, come aveva fatto Fernand Braudel, che la sfera più propria dell’Italia è quella del mercato e non del capitalismo. Tuttavia alle reti lunghe di quest’ultimo è necessario agganciarsi per non rinunciare ad una prospettiva di sviluppo che possiamo ancora conseguire. Dov’è l’Italia nel nuovo capitalismo? Si colloca tra l’ambito del capitalismo, gli stadi superiori dell’economia e lo spazio del settore concorrenziale, l’ambito proprio dell’economia di mercato, che ospita la concorrenza riservata alle piccole e medie imprese. Si tratta di un capitalismo low cost.
Una domanda dobbiamo porci dopo queste vicende: politica, economia, istituzioni possono raggiungere un equilibrio? In Italia è sembrato impossibile, salvo alcune eccezioni nel secondo dopoguerra. Cosa resta oggi del capitalismo italiano? Abbiamo medie imprese valide ed una diffusa economia imprenditoriale, locomotive all’interno dei distretti. Dubbi tuttavia si pongono sul Nord Ovest: è ancora un’area forte dell’Europa? Gli indicatori dicono che si può tornare con riforme strutturali condivise sul terreno dello sviluppo. Siamo alla ricerca di un modello.
Abbiamo due Italie: quella minore rappresentata dall’economia di Einaudi, Olivetti e Fuà e quella delle grandi imprese, dell’economia mista di Nitti, Beneduce, Saraceno e Mattei. Sembra ora riemergere, dopo cinquant’anni, l’Italia minore del Nord-est-centro (NEC) unitamente ad altre regioni come modello italiano. Un’Italia più autentica, con radici più stabili e profonde, rispetto all’altra che è stata il frutto di uno sforzo dall’alto degli artefici di una industrializzazione pubblica, che ha supplito alla riluttanza dei privati. Ora l’Italia ritorna alle origini, alle sue attitudini tradizionali. È un modello perché capace di mobilitare le risorse locali anche in altre regioni. Purtroppo bisognerà invertire la rotta di una omologazione verso il basso con corruzione, bassa qualità della giustizia e dei servizi, peggioramento della qualità dell’istruzione, scadimento della politica, municipalismo, localismo. Sta comunque riprendendo vigore un’economia intermedia con le multinazionali tascabili. Ci sarà un futuro se esse saliranno sul treno dei processi cognitivi e dell’economia della condivisione e di Internet delle cose (IDC), oltre la vincente triade design-moda-vino. Occorre capire, anche con indagini parlamentari su Industria 4.0, quali sono le rotte del nuovo industrialismo e della nostra capacità di creare ricchezza in un mondo complesso, senza dimenticare le miniere dei beni culturali, del paesaggio e del turismo ben organizzato.
I tempi stanno cambiando. Siamo ad un passaggio d’epoca. Dobbiamo cogliere le opportunità e non solo temere i rischi del cambiamento. Questo è rapido e tumultuoso anche a causa di un evidente progresso tecnologico in un mondo globalizzato. Tre aspetti risultano rilevanti in tale contesto per Ignazio Visco: la riforma della regolamentazione degli intermediari e dei mercati finanziari, la crisi dei debiti sovrani e le implicazioni per l’integrazione europea, il sistema produttivo ed il ruolo dell’azione pubblica in Italia (Visco 2015: 113).
La grande trasformazione in atto richiede interventi anche di natura strutturale, da parte sia della politica economica sia della politica tout court, dentro e oltre i confini nazionali. Non possiamo prevedere il futuro, ma dobbiamo affrontarlo al meglio. La grande trasformazione che l’economia italiana deve avviare ha bisogno di nuova finanza, ovvero di capitali, di operatori e di intermediari in grado di ben allocare le risorse e gestire i rischi di un sistema produttivo orientato in modo più deciso all’innovazione.
Un nuovo paradigma
In conclusione, serve un nuovo paradigma per uscire dal declino pluridecennale dell’Italia. Mauro Callegati lo definisce «acrescita» (Callegati 2016: 102) come alternativa praticabile alla teoria economica dominante, ma inutile e incoerente. Il perdurare di una crisi che la teoria economica non contempla, la disaffezione di molti economisti, i manifesti critici degli studenti ci indicano un possibile collasso del neoliberismo. La previsione teorica di una società basata sui consumi è falsificata dalla realtà. La crisi epocale iniziata nel 2008, la disoccupazione di massa a causa di una tecnologia a bassa intensità di manodopera, la crisi ecologica del pianeta ci suggeriscono che occorre un cambio di paradigma. Mauro Callegati propone un mondo che contempli indicatori di benessere come la natura, i tempi e le forme di vita e di lavoro, le relazioni sociali. Un modello che ne richiama altri della tradizione dell’economia civile italiana della felicità pubblica. L’economia deve essere legata alla natura e alla società. Acrescita significa che il PIL non misura la qualità della nostra vita. Questa dipende dal superamento dell’economia dei criceti, dall’introduzione di modelli complessi come quello per agenti eterogenei interagenti (ABM), da politiche economiche possibili come riqualificazione della spesa pubblica, recupero dell’evasione fiscale, azzeramento degli oneri finanziari, monetizzazione del debito pubblico, benessere europeo e dei popoli, salvataggio di persone e non solo di banche, redistribuzione del reddito e delle risorse contro le gravi disuguaglianze, strumenti di analisi più sofisticati per prevedere le crisi. Insomma un cambio di paradigma nelle nostre Università, nella classe dirigente, nei cittadini attivi e critici, come movimento di democrazia economica in coerenza con la lunga tradizione dell’umanesimo italiano.
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