Il disegno di legge delega, infatti, introduce alcuni principi generali e, qualora venisse approvato, è solo con i decreti attuativi che sarà possibile stabilire quale architettura assumeranno le nuove politiche del lavoro. Ma al di la delle scelte che verranno adottate quel che è certo è che si tratterà di un modello “italiano”, più o meno ispirato alle diverse esperienze europee più avanzate, ma strettamente condizionato dai vincoli e dalle contingenze della realtà sociale ed economica del paese.
Vediamo perché. Un primo importante vincolo riguarda le risorse che il nostro paese destina alle politiche del lavoro e proprio il confronto con la Germania è emblematico. La spesa complessiva dell’Italia per le politiche del lavoro nel 2011 era pari all’ 1,7% del PIL (circa 27 miliardi), inferiore di soli due decimi di punto alla media europea (1,9%). Rispetto alla Germania la differenza è dello 0,1% ma è la distribuzione delle risorse che risulta radicalmente diversa.
Il “modello tedesco” destina, infatti, il 56% della spesa per le politiche di sostegno al reddito (la componente cosiddetta passiva), il 24% alle politiche attive ed restante 20% ai servizi per il lavoro. In Italia il modello di spesa è molto diverso: l’80% va alle politiche passive, il 18% alla componente attiva e solo l’1,8% ai servizi per il lavoro. Ne consegue una architettura delle politiche del lavoro profondamente diversa.
Sebbene la spesa destinata alle politiche passive per disoccupato sia simile (10.700 euro in Germania e di 10.200 euro in Italia) quella pro capite riservata alle politiche attive è quasi il doppia (4300 euro per disoccupato contro le 2300 in Italia). Analogo squilibrio si registra per la formazione professionale (2700 euro per disoccupato contro i 1100 euro in Italia). Se poi si considera quella per i servizi per il lavoro il divario è praticamente incolmabile: 3500 euro per disoccupato in Germania contro i 200 euro in Italia. Ammesso che ci si voglia ispirare al modello tedesco (nel collegare politiche attive e passive), appare assai difficile avvicinarci agli standard della Germania.
Non potendo aumentare la spesa complessiva (per i noti vincoli di bilancio) e dovendo parallelamente prevedere un ampliamento della platea dei beneficiari di sostegno al reddito (con conseguente aumento della spesa per le politiche passive) come sarebbe possibile garantire gli stessi livelli di sviluppo delle politiche attive? Senza contare che l’Agenzia Federale per il lavoro in Germania dispone di oltre 110 mila addetti (con un rapporto di 26 disoccupati per operatore), 1100 sportelli e svolge una forte funzione nazionale. Anche dando vita ad una nostra Agenzia nazionale per il lavoro (a risorse invariate) e pur valorizzando la rete degli operatori privati autorizzati parlare di modello tedesco è ragionevolmente fuori luogo.
Vi è poi una seconda ragione che mina alla radice ogni semplicistica translazione. La regolamentazione del mercato del lavoro in Germania è profondamente diversa dalla nostra. Secondo l’OECD infatti l’indice di protezione dei lavoratori dipendenti (il cosiddetto EPL) era pari in Germania nel 2013 a 2,94 una valore di poco maggiore di quello registrato in Italia (2,74). Ma a parità di livelli di protezione in Germania la regolazione della flessibilità in uscita è fortemente condizionata dalla presenza del sindacato nei consigli di amministrazione delle imprese (di medie e grandi dimensioni) aspetto questo che da solo rende le due realtà difficilmente commensurabili. Inoltre non vanno nemmeno dimenticati gli aspetti più critici e criticati del modello tedesco.
Con la riforma Hartz, infatti, sono stati regolamentati i cosiddetti Minijobs, lavori part time che in media hanno una retribuzione di 450 euro, che sono esenti da tasse e possono essere integrati da sostegni al reddito fino al raggiungimento del cosiddetto reddito minimo. Attualmente i Mini jobs interessano circa 5 milioni di lavoratori ed è anche grazie a tale forma di lavoro che i tassi di disoccupazione in Germania sono drasticamente diminuiti. Anche questo aspetto più controverso è parte integrante del “modello tedesco” la cui adozione nel nostro paese inevitabilmente aprirebbe una discussione ancora più aspra di quella attuale.
Si può, dunque, concludere che il processo di riforma in atto non potrà che essere “italiano” poiché strettamente legato alla realtà contingente, ai modelli di decentramento amministrativo adottati (il ruolo delle Regioni in relazione anche alla riforma costituzionale), al nostro sistema di relazioni industriali. Potrà risultare più o meno efficace nel promuovere nuova occupazione o nel difendere quella che già c’è, più efficiente nella valorizzazione delle risorse (incidendo positivamente o negativamente, ad esempio, sulla capacità di spesa dei fondi strutturali) ma non sarà “straniero”.
Purtroppo o per fortuna non esiste un supermercato dei modelli. Non si può prendere un pezzo di flexsecurity danese, l’Agenzia tedesca e il rapporto tra servizi pubblici e privati del Regno Unito. Certo, secondo il principio della trasferibilità è possibile utilizzare le “buone prassi” come ci ricorda spessissimo la Commissione, ma cosa diversa è pensare di importare modelli “chiavi in mano” o peggio ancora “assemblarne” i pezzi che ci piacciono di più. Purtroppo o per fortuna dovremo fare da soli.