L’ora legale fu adottata dal fascismo subito dopo la dichiarazione di guerra nel 1940 non solo in estate, ma per tutto l’anno e durò, con alterne vicende fino al 1948, quando fu abolita. Simbolo della guerra e del fascismo fu reintrodotta solo diciotto anni dopo, nel 1966, mentre negli altri paesi essa era normalmente utilizzata. Sono dovuti passare venti anni per scrollarci da dosso l’identificazione dell’ora legale con la guerra, il fascismo e la fame.
Nel caso delle istituzioni ed in particolare del Senato il percorso è più o meno simile fino agli anni ’70, poi cambia prospettiva, peggiorandola.
I Padri costituenti vollero il bicameralismo perfetto perché le due camere dovevano avere funzioni di controllo reciproco dato che il fascismo (e poi il nazismo) era andato al potere in modo formalmente legale, attraverso elezioni, senza colpi di stato incruenti salvaguardando la scatola oramai vuota delle istituzioni.
Nello Statuto Albertino il Senato era di nomina regia e privo di poteri reali. Si votava solo per la Camera dei Deputati dove si svolgeva il reale dibattito politico.
Dopo il fascismo, con la Costituzione repubblicana, per accrescere la funzione di controllo, si inaugura il bicameralismo perfetto così che le due camere si controllino a vicenda; non solo ma si diversificano le durate delle legislature, la Camera cinque anni il Senato 6, in modo che non ci sia alcun vuoto di potere. Sempre per la paura di un ritorno alla dittatura fu lasciata l’indeterminatezza dei poteri la Presidenza del Consiglio; la Costituzione prevedeva di rimandare ad una legge ordinaria le funzioni e le prerogative del Presidente del Consiglio, ma di fatto non venne mai emanata, proprio per la paura di ricreare una dittatura legalizzata.
Nel frattempo però lo strapotere delle correnti dei partiti, che in tal modo esercitavano il reale governo spesso in contraddizione con il Presidente stesso, provocò un immobilismo tale che precipitò il Paese nella crisi di inizio anni ’80 con l’inflazione a due cifre per quasi un decennio. Così si è dovuto aspettare l’84 per dotare la Presidenza del Consiglio degli strumenti conoscitivi e di potere autonomi dai ministeri con una apposita legge. Anche allora, come oggi, i diversi poteri incuneati nello Stato addussero motivazioni “democratiche” per impedirne l’approvazione; Forattini nelle sue vignette rappresentava Craxi con i gambali e i pantaloni alla cavallerizza alla moda fascista.
Oggi siamo alla stretta finale di una riforma istituzionale che prevede nei fatti un sistema monocamerale più snello, con meno contrappesi per evitare un funzionamento che riduce tutto ad una rissa continua, o così almeno appare all’esterno.
Le corporazioni più potenti hanno da sempre i loro referenti all’interno del Parlamento e la rissa che appare all’esterno, altro non è che la continua mediazione di provvedimenti per favorire o non svantaggiare troppo questa o quella categoria, come quando i tabaccai mandarono in minoranza il governo Letta sull’uso delle sigarette elettroniche (o tempora o mores). Così, puntuale come la morte, arriva la polemica sulla democraticità o meno della riforma.
Quello del Senato altro non è che un primo, consistente, atto per ridurre il potere delle corporazioni di influire sulla legislazione amministrativa e di governo reale del Paese anche se, oggi come allora, è mascherata da nobili intenti democratici e di ristabilimento degli equilibri di poteri istituzionali così come i Padri costituenti li avevano disegnati.
Molto più semplicemente ci appare come il primo passo verso “la cacciata dei mercanti dal tempio” che per troppo tempo hanno condizionato le scelte di un intero paese per i propri specifici affari di corporazione, nella maggior parte dei casi, inconfessabili.
Questo è un primo passaggio, necessario ma di per sé non ancora sufficiente, ne occorrono altri:
– il riordino degli ordini professionali chiamandoli a sottoscrivere un nuovo contratto sociale nel quale sia prevista una contropartita per lo Stato e una amministrazione della giustizia interna molto più stringente;
– una legislazione senza le deroghe che compaiono nei regolamenti attuativi e che fanno sì che il Pubblico funzionario, con la stessa legge e con la stessa domanda sul tavolo, possa dire di sì come di no a seconda del vento che tira al piano superiore;
– la liquidazione degli enti derivati in perdita fonte di sottogoverno locale e regionale con l’unico risultato di drenare, per vie traverse, pubblico denaro;
– uno schema di bilancio tassativo e analitico a centri di costo, valido per ogni amministrazione pubblica fornitrice di servizi e la tassativa rimozione dei dirigenti che non la rispettano.
In una parola occorre garantire la terzietà dello Stato, fonte primaria di giustizia ed equità, cacciando non solo le infiltrazioni mafiose e camorriste, e già sarebbe tanto, ma anche l’occupazione di esso da parte di correnti mascherate dentro ai partiti e dall’uso clientelare della pubblica amministrazione come canale di consenso partitico.