“La vita umana non è quella linea retta ed in salita che sognava non so chi. E’ piuttosto una linea spezzata, per lo meno sinuosa, imprevedibile e sconcertante” (Maurice Bellet).
Da qualche tempo è finalmente oggetto di ampia attenzione e di dibattito pubblico il ruolo che svolgono le donne nelle varie forme di criminalità organizzata. Per quanto riguarda la ’ndrangheta, una delle chiavi di volta al suo contrasto è stata l’aver fatto “saltare” la contrapposizione netta tra il “dentro” e il “fuori” il clan: aver intuito, che c’erano persone, soprattutto donne, stanche di vessazioni, lutti ripetuti, e che andavano innanzitutto aiutate ad immaginare una vita diversa per sé ed i propri figli; a destrutturare la convinzione che il destino di una persona fosse qualcosa di ineluttabile. Si è intervenuti con un azione discreta e paziente a liberarle dal senso di colpa associato alla scelta di rifiuto della supremazia e della logica totalizzante del clan, ad interpretare come devianti i comportamenti criminali. Tutto questo dentro un contesto sociale, la provincia di Reggio Calabria che tra gli anni ‘80 e ‘90 ha conosciuto un devastante scontro tra le ’ndrine che ha causato la morte centinaia di persone, in molti casi sposate e con figli. Orfani e vedove che i cui il clan si preoccupava di sostenere a tutti i livelli, a partire da quello economico, attuando una sorta di efficace welfare interno.
I cambiamenti sono stati possibili grazie al lavoro sinergico di alcune realtà istituzionali – Tribunali per i Minori, Servizi Sociali – dell’associazionismo, del volontariato, del privato-sociale; degli “uomini e delle donne di fuori”, che hanno pagato un prezzo altissimo: oltre alla perdita dei propri cari, l’isolamento, la diffidenza, la collusione e l’inerzia di parti importanti degli apparati dello Stato.
Questo lavoro faticoso ed incessante ha consentito di allargare il perimetro della cosiddetta Comunità Educante, includendo scuole, chiese, realtà associative ed istituzionali, l’affermarsi progressivo dell’educazione alla legalità e alla giustizia come fulcro della propria azione, nella consapevolezza sempre più diffusa che le cose belle hanno crescita faticosa, sono fragili, soggette a cadute anche rovinose e sono possibili ovunque ci sia passione per la vita, “allenamento” allo stupore e alla meraviglia, capacità di valorizzare il meglio del passato, di immaginare il futuro restando saldi nelle difficoltà e nelle tragedie del presente. Forse sta qui l’essenza della sfida: stare all’interno dei diversi contesti e luoghi di lotta e d’impegno, continuando a pensare, progettare, agire; a indignarsi, quando serve (senza dimenticare che se la Calabria è il luogo in cui il fenomeno criminale ’ndrangheta è nato e si è sviluppato, sono ormai cinquant’anni che ha assunto una dimensione intercontinentale, condizionando pesantemente la vita di intere comunità).
Allo Stato, nelle sue diverse articolazioni, soprattutto il compito di fare rispettare le leggi, a ciascuno di noi scegliere da che parte stare, senza coltivare l’illusione del “se ciascuno facesse il proprio dovere…”, perché la storia dimostra che alcuni fanno la scelta, per i più disparati motivi, di vivere al di fuori della legalità. Nessuna chiusura a priori alle possibilità di cambiare vita come prevede la Costituzione, ma tenendo conto che le trasformazioni necessitano di consapevolezza degli errori compiuti, disponibilità a correggerli, di tempo, e tutto questo comporta un prezzo, a volte anche molto alto, in termini di sofferenza personale. Senza dimenticare il dovere di tener conto di quella che si è causata agli altri ed certi casi al limite del sopportabile.
Inoltre occorre assumere la “relazione” come oggetto di studio e di azione evitando di concepire il genere come criterio prevalente interpretativo nella determinazione di condotte e comportamenti devianti. Questo non vuol dire trascurare ciò che storicamente è avvenuto e tuttora avviene a livello sociale, ma considerare che il soggetto nasce e cresce dentro una complessa trama di relazioni familiari in cui sono diverse le figure che si prendono cura di lui, a partire dai genitori che costituiscono a diverso titolo – anche quando sono parzialmente o completamenti assenti – i punti di riferimento del bambino. L’analisi efficace dello strutturarsi di una personalità violenta non sopporta, quindi, attribuzioni di responsabilità avulse da entrambe le figure genitoriali, ove esistono, ma le prende in considerazione per valutarne la diversa influenza.
Per finire, occorre evidenziare che si sta affermando un diverso modo di raccontare la Calabria, grazie al contributo di importanti scrittori e scrittrici calabresi (solo per citarne alcuni: Mimmo Gangemi, Gioacchino Criaco, Ada Murolo, Anna Rosa Macrì). É un bel segnale anche se non è sufficiente. Infatti scontiamo ritardi storici, scelte fallimentari a livello politico che urgono veloci ed efficaci ripensamenti. Tuttavia una comunità cresce quando riflette e ritrova la capacità di raccontarsi in modo “spietato”, senza rimozioni, senza indulgere al lamento e inutili nostalgie del tempo trascorso.
La strada è ancora lunga, ma vale la pena percorrerla riconquistando una visione del tempo che mi piace definire “rinascimentale” cioè tipica degli uomini di quella fase storica che coraggiosamente si cimentavano nelle loro imprese con la consapevolezza che ciò che stavano iniziando avrebbero potuto non vedere ultimato. Fuori da questa prospettiva rimarremo succubi del tutto e subito che misconosce il valore del tempo, le sue “articolazioni” (passato, presente e futuro) e la fatica del viaggio.
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