Molti paesi si stanno impegnando a mettere in piedi meccanismi per indebolire il dollaro. Rincorrono la prospettiva che il mondo può essere migliore una volta che la valuta statunitense perde la sua forza ed egemonia. La Cina1 per esempio spinge verso una riduzione dell’uso del dollaro nella sua economia e in prospettiva anche a livello globale.
Il progetto di Yuan digitale, gli accordi con diversi paesi per regolare gli scambi e gli investimenti nelle rispettive monete anziché in dollari fanno parte della strategia di contrasto del dollaro. Una strategia simile è quella della Federazione Russa2 che mira ugualmente ad una progressiva diminuzione dell’uso del dollaro. Il meccanismo messo a punto dall’Unione Europea per evitare gli effetti delle sanzioni all’Iran è un altro esempio3.
Recentemente si sono manifestati segnali di un indebolimento del dollaro4 che ha perso forza nei confronti dell’euro5, anche a causa del forte indebitamento degli USA. Ma per i banchieri centrali di tutto il mondo il dollaro rimane la valuta di riserva per eccellenza. Il dollaro detiene-secondo dati del Fondo Monetario internazionale aggiornati al primo trimestre 2020- una quota del 61% tra le valute di riserva mentre l’euro vale il 20% e lo yuan cinese il 1.9%. In un periodo di forte crisi economica dovuta alla pandemia il dollaro rimane sempre richiesto e alternative non se ne vedono all’orizzonte. Di questa egemonia gli USA percepiscono prevalentemente gli effetti positivi . Ma nella classe dirigente americana6 si inizia a pensare che l’egemonia non porti solo vantaggi ma anche seri svantaggi che si riflettono sull’economia e la politica del paese polarizzandola. Gli effetti si estendono, inoltre, a livello internazionale creando squilibri economici e sociali che diventano difficili da gestire e che generano tensioni crescenti a livello geopolitico.
Grazie alla egemonia del dollaro gli Stati Uniti hanno potuto godere del privilegio di prendere denaro in prestito dagli altri paesi a costo molto basso e vivere in qualche modo al di sopra dei loro mezzi. Ma anche di svolgere il ruolo di locomotiva economica mondiale utilizzando il proprio potere di spesa. Il sistema bancario e finanziario e le grandi multinazionali del paese ne hanno enormemente tratto vantaggio. Si è affermata un economia finanziaria e orientata alla speculazione. Il lavoro soprattutto quello legato alla produzione ha pagato un duro prezzo. Come alcuni analisti osservano in campo finanziario gli USA non hanno sofferto di declino neanche relativo ed anzi si può solo parlare di una egemonia americana unita a quella militare e culturale7.
Tutto questo, però, è avvenuto ai danni dei lavoratori americani e delle classi più deboli. Infatti un dollaro forte ha impedito un espansione della base produttiva del paese perché i prodotti americani costano di più rispetto alla concorrenza. Questo fatto ha spinto le importazioni dall’estero e ha danneggiato le produzioni americane soprattutto quelle collocate su segmenti di mercato a basso valore aggiunto. Tutto ciò ha generato un largo deficit nel saldo della bilancia commerciale con l’estero nei confronti di partner come Cina e Europa provocando il progressivo indebolimento del tessuto produttivo del paese e generando vaste aree di disoccupazione e sottoccupazione. A sua volta il malcontento sociale si è riflesso anche sulle scelte politiche che hanno poi condotto alla vittoria elettorale nel 2016 dell’attuale presidente Trump.
Insomma avere una moneta forte che costituisce una riserva per tutti i paesi del mondo comporta vantaggi tra cui anche quello di imporre sanzioni, anziché utilizzare la forza, che vengono utilizzate come armi contro gli avversari geopolitici come nel caso più eclatante dell’Iran, ma anche svantaggi che si stanno manifestando in modo sempre più evidente. La richiesta di dollari spinge le quotazione della valuta statunitense ma nello stesso tempo rende la vita difficile al sistema manifatturiero americano i cui prodotti sono sempre meno competitivi dal punto di vista del prezzo. Non bastano i dazi per correggere degli squilibri strutturali come per esempio i saldi negativi nel commercio estero con Europa e Cina.
Ecco perché l’idea di un abbandono concordato o anche unilaterale dell’egemonia del dollaro non sarebbe un opzione del tutto contraria agli interessi americani e forse internazionali. Il segretario al tesoro statunitense ha dichiarato alla CNBC che è interesse nazionale mantenere lo status di moneta di riserva mondiale e che l’amministrazione attuale non intende abbandonarlo8.
Una tale scelta non è certamente all’ordine del giorno. Considerata, però, la crescente competitività che caratterizza i rapporti con Cina e Europa, la comunità internazionale e gli Usa dovrebbero considerarla attentamente per i vantaggi che potrebbe generare all’intero sistema mondiale. Un abbandono unilaterale o concordato avrebbe effetti correttivi sugli attuali assetti soprattutto del commercio internazionale. Per esempio il mondo della produzione e del lavoro riacquisterebbe un ruolo centrale limitando il potere della finanza speculativa che genera molti problemi economici, sociali ed etici nel mondo occidentale.
Una soluzione concordata potrebbe vedere le principali economie impegnate in un processo multilaterale governato dal Fondo Monetario internazionale finalizzato alla creazione di un paniere di monete da gestire da parte di una autorità terza che avrebbe il compito di regolarle.
In caso contrario gli Usa potrebbero decidere di abbandonare unilateralmente l’egemonia del dollaro spingendo le due principali economia a cambiare le proprie politiche e a concentrarsi sulle proprie economie riequilibrando anche il sistema internazionale degli scambi commerciali. I profitti del sistema finanziario probabilmente sarebbero limitati ma si affermerebbe un sistema maggiormente basato sul lavoro e la produzione che accelererebbe l’affermazione di un economia sostenibile anche eticamente ed eviterebbe un declino della globalizzazione contrastando il protezionismo.
Note