Si è molto discusso di corruzione in Italia dopo la pubblicazione, il 3 febbraio, di un rapporto della Commissione Europea con un allegato dedicato all’Italia. Secondo tale testo l’importo complessivo della corruzione ammonterebbe a 60 miliardi di euro. È stato facile ribattere da più parti che tale cifra è esagerata, pur riferendosi ad un paese in cui il fenomeno è notoriamente diffuso.
Una decina di anni fa secondo la Banca Mondiale la corruzione di un paese si poteva spannometricamente stimare in ragione del 3/4 per cento del Pil, il che per l’Italia pre-crisi dava come risultato appunto la somma predetta, presa per buona anche da alcune autorità italiane. È evidente che si tratta di approccio assai discutibile, tant’è che oggi gli altri paesi europei si guardano bene dal seguirlo. L’effettiva distanza di tale cifra dalla vera quantità di corruzione esistente andrebbe analizzata tramite modalità valutative un po’ più rigorose. Il che ci porta a questioni metodologiche spinose.
Transparency International, l’organizzazione non governativa che svolge il meritorio compito di misurare annualmente la corruzione nei vari paesi del mondo, costruendo classifiche e indici che vengono aggiornati annualmente, chiede a diverse categorie di soggetti, tramite apposite rilevazioni campionarie, come percepiscono il fenomeno. Stavolta si tratta di un metodo assai più affidabile, ma non pienamente, visto che i rispondenti parlano in genere di loro impressioni, più che di esperienze dirette. Alle domande su tali esperienze (ad esempio: ha ricevuto richieste di mazzette?) le risposte potrebbero peraltro essere sottodimensionate (giacché alcuni soggetti, pur avendole in effetti ricevute, per quieto vivere, paura di ritorsioni o altre ragioni potrebbero preferire non parlarne). Insomma, come anche Transparency International ammette, le sue stime vanno prese con la dovuta cautela.
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Un’altra strada è lo studio dei costi delle opere pubbliche, delle pubbliche forniture, di certi compensi individuali, i quali, se anomali, possono indicare fenomeni corruttivi. Si possono anche analizzare, creando apposite banche-dati, le risultanze delle indagini giudiziarie, sempre più frequenti. E così via. Ma in questa sede non è il caso che io vada oltre. Basti aver segnalato che esiste la questione della misurazione e la si può affrontare (seriamente).
A parte i sessanta miliardi, il documento della Commissione Europea citato prima contiene altri punti da non trascurare. Una volta rilevate l’inattendibilità di quella cifra (e la difficoltà, non l’impossibilità, di misurare in modo accettabile ciò che succede) è bene non fare di tutta l’erba un fascio, consegnando l’intero rapporto al dimenticatoio. È indubbio che la corruzione incida moltissimo, e che occorra uno straordinario impegno per contrastarla. Soltanto da poco più di un anno, dopo una lunga gestazione, si ha una legge apposita (la 190/2012) che ha costituito un punto di svolta, cui ha fatto seguito l’importante decreto legislativo 33/2013.
La Civit, istituita nel 2009 per occuparsi di integrità, valutazione e trasparenza delle pubbliche amministrazioni, è stata trasformata in Anac (Autorità nazionale anticorruzione). Andrebbero tuttavia potenziate le sue prerogative e la dotazione di risorse, già largamente insufficiente anche rispetto ai compiti precedenti alla legge 190. Molte pubbliche amministrazioni ritardano nell’effettuazione degli adempimenti prescritti (come ha evidenziato la stessa Anac). Non fu a suo tempo possibile introdurre certe previsioni (ad esempio in materia di autoriciclaggio o di corruzione politica e voto di scambio). La normativa richiede quindi svariate integrazioni e modifiche (una disamina non è qui ovviamente possibile). Siamo quindi all’inizio di un percorso e vi è ancora strada da fare, se si vorrà percorrerla.