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Forse l’imprenditore marchigiano che giorni fa ha ritenuto di togliersi la vita per le difficoltà incontrate sul lavoro non conosceva Beveridge e non ha incontrato sulla strada che lo ha condotto alla sua tragica decisione il ‘buon samaritano’ pronto a soccorerlo; ma certamente avrebbe gradito che la socoetà e la politica si fossero fatti carico dei suoi problemi

Il primo dicembre segna la data di quando, 73 anni fa, Lord Beveridge presentava il suo ‘rapporto’ (Social Insurrance and Alied Service), che in Europa instaurava quello che sarà chiamato Welfare State e che nella speranzosa attesa del crollo del nazismo, del fascismo e del comunismo si proponeva la sconfitta dei cinque ‘giganti’ che tenevano (e tengono) schiava l’umanità: il bisogno, la malattia, l’ignoranza, la miseria e l’ozio. In applicazione di tale programma seguirono leggi riguardanti l’obbligo scolastico elevato fino a 15 anni (Education Act), il sistema assicurativo e pensionistico (National Insurrance Act) e l’efficiente sistema sanitario (National Health Act): tre progetti di legge che hanno rivoluzionato l’intero impianto delle politiche sociali in Europa.

Tale sistema di sicurezza sociale divenne il punto di riferimento obbligato e fece della Gran Bretagna la “capitale” del welfare State moderno, fino all’era della Thatcher, che, seguendo la ventata del neocapitalismo dell’americano Reagan, segnò una battuta di arresto deleteria. Ma ’il dado era tratto’ e in Europa, gradualmente, si andò affermando il welfare State, instaurato da Beveridge e, prima ancora, teorizzato da Maynard Keynes con la teoria del ”mercato autoregolato”. Un altro studioso, tra tanti altri ancora, K. Mannheim, con la sua teoria sulla “pianificazione democratica” attribuisce importanza alle politiche di welfare in periodi di crisi economica e disoccupazione. E così si andarono affermando le politiche che disegnarono il welfare, che tuttavia, con il passare degli anni, con lo sviluppo delle tecnologie e con la configurazione dello Stato e della società nelle sue varie componenti, andava assumendo altre connotazioni fino ad assumere i tratti del welfare society, dove protagonista dell’intero comparto dell’erogazione delle politiche sociali non è più lo Stato soltanto ma l’intera società. Nacque allora la ‘società civile’, il Terzo Settore, il volontariato e le altre forme di organizzazioni ‘dal basso’, che si fanno carico del sistema di benessere della società. Molti sono stati, in Italia e fuori dai confini della nostra penisola, gli autori che hanno studiato il problema.

Negli ultimi tempi, un altro studioso, Thomas Piketty, ha affrontato il tema del welfare a partire dal tema della ‘uguaglianza/disuguaglianza’ e a partire, nello stesso tempo, della grave crisi che si è determinata. Molti osservatori lamentano a gran voce l’assenza di ‘ritorno dello Stato’ sulla scena economica (poiché il problema è sostanzialmente di natura economica), denunziando, per esempio, in Europa i ‘greci pigri’ e i ‘tedeschi nazisti’. Oggi, all’inizio del XXI secolo, seguendo ancora l’insegnamento di Beveridge, in tutti i Paesi sviluppati le spese pubbliche coprono in gran parte il costo dei servizi per l’istruzione e la sanità mentre i redditi per inattività e servizi sociali fanno parte del reddito disponibile per le famiglie ( pensioni di vecchiaia, indennità di disoccupazione, assegni familiari, salari minimi garantiti, ecc.).

La redistribuzione moderna, in particolare lo Stato sociale fondato nel corso del XX secolo, è stato costruito attorno ad un complesso di diritti fondamentali (il diritto all’istruzione, il diritto alla salute e il diritto alla pensione), che rappresenta un immenso progresso storico. Al di là degli scontri elettorali e delle partigianerie politiche si tratta di sistemi sociali salutati da un larghissimo consenso intorno a quello che è stato percepito come “modello sociale europeo”. In Italia, come nel resto dell’Europa con poche variazioni, negli anni avvenire, il problema riguarderà (prima di tutto) i problemi di organizzazione, di modernizzazione e di consolidamento: come migliorare il funzionamento degli ospedali e degli asili?

Come riformare le università e le scuole primarie? Come correggere il calcolo delle pensioni o delle indennità di disoccupazione in rapporto alla crescita dell’aspettativa di vita e della disoccupazione giovanile? Domande legittime oltre che cruciali. Uno dei primi obiettivi, nei Paesi sviluppati soprattutto, è la promozione della mobilità sociale, dato che non è semplice raggiungere, nell’istruzione superiore, un’uguaglianza effettiva delle opportunità: è per questo che l’obiettivo diventa prioritario per lo Stato sociale del XXI secolo.

I sistemi pensionistici pubblici si fondano essenzialmente sul principio di ripartizione; i contributi prelevati sui salari vengono immediatamente utilizzati per pagare le pensioni, contrariamente ai sistemi a capitalizzazione. E così, i contributi che permettono di finanziare le pensioni di domani saranno tanto più alti quanto più crescerà la massa salariale. In altri termini, tutte le generazioni sono legate le une alle altre dando l’impressione di trovarsi di fronte a una società virtuosa e armoniosa…Ma è solo una impressione, perché il lavoro non c’è! L’economia dell’insicurezza (propria della globalizzazione) rivoluziona anche le condizioni di lavoro e di vita in tutte le società occidentali evolute. E di fronte a queste sfide la semplice difesa dei “sacrosanti diritti del lavoratore” rischia di farli apparire come aspirazioni ingenue, nostalgiche e utopistiche.

La disoccupazione di massa e la povertà non sono segno della sconfitta, ma una condizione delle società del lavoro moderne, poiché il lavoro diventa sempre più ‘produttivo’ e c’è sempre meno bisogno di lavoro umano per ottenere una quantità sempre più grande di risultati. L’epoca dell’egemonia del lavoro salariato viene sostituita da quella della società dei ‘lavori’, in cui è crescente lo spazio occupato dalle tante forme di agire individuale, nel senso che ogni individuo che lavora incorpora nella propria quotidianità strategie acquisitive di razionalità economica, divenendo imprenditore di se stesso. La individualizzazione, che caratterizza l’epoca della globalizzazione e che investe anche il lavoro, ha introdotto grandi elementi di vulnerabilità e di fragilità con conseguente riduzione della sicurezza sociale e perdita della sicurezza del posto di lavoro.

Le diverse forme di “lavoro in proprio”, come per esempio outsourcing e franchising, riflettono la ‘frammentazione’ che concorre ad accrescere (forse ne è effetto) il rischio per la società di disgregarsi ulteriormente. Il passaggio dalla “società del lavoro” alla “società delle attività plurali” mette in discussione il lavoro salariato (senza tuttavia abolirlo), ma produce cambiamenti fondamentali nella dinamica sociale. Ma dietro alla retorica delle opportunità offerte per una piena realizzazione dell’individuo c’è invece la debolezza e la solitudine, di cui la frammentazione è causa. Il welfare della post modernità dovrà trovare nuovi modelli e nuovi paradigmi, che ridefiniscano il lavoro stesso, le modalità organizzative, la natura dei contratti, le sue dimensioni umana e sociale, le politiche regolative.

Non si tratta di abolire o sostituire il lavoro salariato, ma accanto ad esso, in una visione di società civile più evoluta e di welfare societario, il lavoro viene inteso come opportunità di nuova fonte di attività e identità in grado di appagare le persone, di vivificare la democrazia quotidiana stimolando anche la coesione della società individualizzata.

Forse l’imprenditore marchigiano che giorni fa ha ritenuto di togliersi la vita per le difficoltà incontrate sul lavoro non conosceva Beveridge (e gli altri) e non ha incontrato sulla strada che lo ha condotto alla sua tragica decisione il ‘buon samaritano’ pronto a sollevarlo dalle sue ambasce; ma certamente avrebbe ‘gradito’ che la società (e la politica) si fosse fatto carico dei suoi problemi.

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