• la scarsa partecipazione dei giovani e delle donne al mercato del lavoro;
• la scarsa partecipazione della popolazione in età da lavoro a processi di lifelong learning;
• la difficoltà a contrastare i fenomeni crescenti di povertà relativa ed assoluta con interventi di sostegno delle fasce più sociali più deboli.
Gli appunti che si sono susseguiti in modo sistematico sia prima che dopo la crisi economica sono tra loro strettamente connessi. La povertà è spesso generata dalla mancanza di lavoro, la bassa partecipazione a programmi di formazione continua riduce drasticamente i livelli di occupabilità soprattutto per le categorie più penalizzate (giovani e donne svantaggiate). Tutti e tre i richiami quindi evidenziano un storica e strutturale incapacità del nostro paese ad “attivare” il corpo sociale, garantendo cioè una effettiva partecipazione al processo di sviluppo del paese soprattutto per le categorie più deboli.
Ovviamente tale limite non è altro che lo specchio di una cultura collettiva che evidentemente attribuisce scarsissimo peso (al di la della retorica politica) ai fattori che promuovono l’inclusione, riducendo quest’ultima a mero assistenzialismo. Le evidenze che confermano tale atteggiamento sono numerosissime. In Italia si registra il maggior numero di giovani che non studiano e non lavorano (NEET) e siamo tra i paesi europei con la più bassa partecipazione a programmi di formazione continua.
Parallelamente siamo tra gli stati che spendono di più per le politiche passive e meno per quelle attive senza contare che fino a qualche anno incentivando i prepensionamenti abbiamo consentito ad un impiegato cinquantenne di andare in pensione. Sarebbe troppo facile attribuire alla politica la responsabilità di questa storica sfiducia negli strumenti di attivazione (dai servizi per il ai lavoro alla formazione) ossia quelle misure che coniugate alle forme di sostegno economico facilitano i processi di inclusione sociale e professionale (si pensi ad esempio al tema dell’aggiornamento delle competenze). Infatti fin dalla Legge Treu le diverse riforme che si sono succedute hanno costantemente introdotto criteri e disposizioni tese a favorire i processi di attivazione e di inclusione ma tali disposizioni sono state sistematicamente disattese. Basti pensare che è dal 2000 che nel nostro ordinamento è presente una norma che obbliga coloro beneficiano di forme di sostegno al reddito di partecipare a programmi di ricollocamento e di formazione eppure la norma non si è mai trasformata ne in un progetto ne in un diritto esigibile. Evidentemente è la società che domanda “assistenzialismo” per convenienza o per sfiducia ed è per questo le sue diverse “rappresentanze” hanno risposto privilegiando le misure passive a quelle attive.
Un nuovo tentativo di invertire questo circuito è stato fatto con il Jobs Act. La riforma che ha appena completato il suo percorso legislativo con la pubblicazione sulla gazzetta ufficiale degli ultimi decreti che completano le deleghe al Governo, tra le diverse disposizioni, introduce due importanti elementi di contrasto alla cultura assistenziale:
• il rafforzamento delle diverse forme di sostegno al reddito per la disoccupazione involontaria ampliandone la platea e la durata (la nuova NASPI) e prevedendo una prima forma di sostegno economico per i lavoratori svantaggiati che abbiano esaurito l’indennità e non abbiano trovato lavoro (con l’ASDI);
• la creazione di un sistema di servizi e di politiche attive che consenta di valorizzare il sostegno economico trasformandolo da uno strumento per pagare la disoccupazione ad uno strumento per investire sul lavoro.
La parola lavoro in questo caso “incorpora” due ulteriori concetti che sono quello dell’inclusione e quello della emancipazione sociale poiché nelle democrazie moderne è il lavoro il principale fattore di cittadinanza e la crisi che abbiamo vissuto in questi anni ce lo ha dimostrato. Si attendeva da tempo un provvedimento ambizioso che ponesse finalmente in relazione in modo inequivocabile supporti economici e misure di politica attiva. Storicamente, questo principio era stato semplicemente enunciato senza tuttavia definirne i criteri di esigibilità un po’ per retorica delle “riforme a costo zero”, un po’ per la presenza di diversi interessi in campo (si pensi alla formazione), un po’ per la difficoltà di rendere operative le disposizioni regolamentari per la natura concorrente delle competenze istituzionali.
Con il Jobs Act, il principio della condizionalità (che potremmo tradurre con il diritto ad essere parte attiva nel mercato del lavoro) prende finalmente corpo poiché – seppure in forma ancora sperimentale – definisce un sistema di diritti e di doveri che ponga al centro la partecipazione dei cittadini a politiche che aumentino il livello di occupabilità delle persone, rafforzandone le competenze e sostenendone i processi di ricerca del lavoro. Il decreto sul riordino delle politiche attive e dei servizi per il lavoro descrive in modo dettagliato le diverse misure di politica attiva che interessano i disoccupati ed i lavoratori a rischio di disoccupazione e che le Regioni dovranno garantire direttamente o mediante il coinvolgimento dei soggetti privati accreditati sulla base di costi standard.
Non è una novità, come dicevamo in apertura, ma sicuramente il decreto ha il pregio della chiarezza. Inoltre viene definito altrettanto puntualmente lo stato di disoccupazione, che va registrato per via telematica al portale “nazionale” dichiarando la propria immediata disponibilità a lavorare e a partecipare a misure di politica attiva. Altra novità è l’estensione del diritto dovere di partecipare a politiche attive ai lavori a rischio di perdere il lavoro che prevede tra le altro la possibilità per i lavoratori sospesi (ossia in cassa integrazione) di svolgere lavori socialmente utili. Altro aspetto che consolida il principio di attivazione è l’introduzione del profiling ossia la definizione del profilo di occupabilità del disoccupato, principio essenziale per determinare non solo la quota di risorse a cui il disoccupato ha diritto per ricollocarsi ma anche la natura del processo di riqualificazione e di reinserimento al lavoro.
Tutti i disoccupati oltre a confermare lo stato di disoccupazione periodicamente dovranno recarsi entro tempi definiti ai centri per l’impiego per la stipulare di un patto di servizio personalizzato che è di fatto il contratto che impegna il cittadino nella ricerca attiva del lavoro e le istituzioni competenti (le regioni) ad offrire effettivamente tale opportunità, garantendo oltre ai livelli essenziali delle prestazioni dei servizi, tempi certi di partecipazione a programmi di politica attiva. In altre parole il decreto fissa in maniera molto più stringente che in passato i tempi e le modalità con le quali il principio di attivazione diventa diritto esigibile soprattutto per i beneficiari di sostegni al reddito. Ma tale principio vale anche come “dovere” del cittadino ad essere parte attiva in questo processo elemento questo che dovrebbe contribuire a contrastare anche tra le persone la tendenza a rifugiarsi in una semplice domanda di assistenzialismo.
Il decreto, infatti, definisce con grande dettaglio le penalizzazione del lavoratore che non adempie agli impegni del patto di servizio (cioè se rifiuta di partecipare a misure di politica attiva o non accetta un’offerta di lavoro congrua o non risponde alle convocazioni periodiche del servizio competente). In questa ottica si colloca l’Assegno di Ricollocazione garantito a tutti i disoccupati percettori di NASPI e Mobilità, graduato in relazione al livello di occupabilità e spendibile presso tutti servizi pubblici e i soggetti accreditati, assegno che appunto impegna il lavoratore a partecipare a misure di politica attiva e i servizi – che vengono remunerati a risultato – a favorirne l’effettiva ricollocazione.
Insomma si tratta di un disegno ambizioso che punta a trasformare profondamente una cultura istituzionale e collettiva centrata prevalentemente sull’assistenzialismo, puntando al contrario sulla partecipazione attiva dei lavoratori e dei disoccupati al processo di sviluppo del paese. Tutto ciò è ovviamente solo sulla carta e probabilmente si tratta solo di un primo passo anche nella costruzione di strumenti universalistici di sostegno a reddito, la cui sostenibilità economica è comunque condizionata dalla riuscita del nuovo disegno poiché non abbiamo i mezzi per assistere quella platea di oltre 10 milioni di persone in età da lavoro che oggi non partecipano al marcato del lavoro. Solo la loro progressiva inclusione lavorativa ci consentirà di sostenere sempre di più le fasce più svantaggiate e deboli. Vedremo quindi se la riforma avrà effettivamente la forza di avviare la trasformare del paese in una società attiva e se è vero che le leggi non creano lavoro certamente la non applicazione del principio di attivazione non genera le condizioni favorevoli per crearlo.