Perché però una rinascita sia possibile, è indispensabile ri-apprendere alfabeti essenziali per vivere le nostre dimensioni relazionali sia nella sfera privata che in quella pubblica. Infatti siamo in presenza di una erosione senza precedenti della qualità dello stare insieme, per questo abbiamo osato il verbo “amare” che coniuga riflessione teorica e coinvolgimento emotivo, intelligenza del cuore e razionalità.
Per vivere infatti questo tempo, l’unico disponibile, occorre avere il senso del limite e della fragilità che rende ciò che viviamo estremamente prezioso.
Nella parola “tempo”, del resto, è ben presente etimologicamente l’idea del circoscritto: tempo è parola latina imparentata con la radice greca del verbo temno, taglio, più noto nelle sue varianti apofoniche in tom, ricorrenti nel lessico medico quando si opera un taglio (anatomia).
Il tempo è una parte “ritagliata” del flusso cronologico nel quale siamo immersi, ed indica uno spazio definito da confini, esattamente come il tempio. All’interno degli anni che abbiamo da vivere possiamo scegliere la strada del narcisismo sfrenato e della dissoluzione, oppure decidere di diventare, come Etty Hillesum, il “cuore pensante della baracca”.
I formatori, gli educatori non possono che essere cuori pensanti, come la giovane ebrea olandese che sentiva la bellezza del cosmo anche nel campo di internamento osservando il cielo nel reticolo del ferro spinato. L’unico atteggiamento possibile è quello della cura intesa come sollecitudine, premura, scrupolosità, alacrità, termini desueti di un lessico emotivo che indica atteggiamenti non più presenti in quel sapere incorporato latente che impronta in modo non consapevole e manifesto comportamenti e stili relazionali.
Per questo apprendere alfabeti è necessario per tornare ad imparare gli elementi essenziali del fare relazione, però al plurale, perché gli approcci relazionali sono molteplici e le relazioni sono vissute nel segno della complessità, anche interculturale.
Uno degli abc più importanti è stato additato da papa Francesco nel discorso del 26 ottobre 2013 rivolto alle famiglie dove ha ricordato le tre parole indispensabili per vivere insieme: permesso, scusa, grazie. Termini che indicano i confini dell’io, pongono un freno al suo dilagare narcisistico riconoscendo lo spazio cui ha diritto l’altro.
“Permesso” è la discrezione, la capacità di attendere un cenno di assenso, l’umiltà di chiedere accettando anche un rifiuto. “Grazie” è la riconoscenza: non tutto ci è dovuto, è il riconoscimento della nostra non autosufficienza, dell’interdipendenza che diventa restituzione nel nostro rapporto con gli anziani. “Scusa”, invece è l’ammissione di una vulnerabilità, la coscienza dell’errore, ma anche la volontà tenace di rilancio di un patto relazionale che non si vuole infrangere. L’atteggiamento di cura ha una maggiore evidenza nei suoi contrari: trascuratezza, incuria, non curanza e si caratterizza per la sua generosità non auto referenziale.
L’amore per il nostro tempo ci deve dunque portare a riscoprire profondamente e qualitativamente gli “alfabeti della cura”.
L’autore tardo latino Igino narra il mito di Cura variamente ripreso dalla riflessione filosofica del Novecento. Secondo la versione antica, la dea Cura passeggiando presso il greto cretoso di un torrente avrebbe manipolato la creta ricavandone una figura. Dopo averla terminata, chiede allora a Giove di infonderle la vita con il respiro, ma al momento di scegliere il nome della creatura, tra Giove e Cura nasce una lite perché ciascuno pretende di poterlo scegliere; nel contenzioso si inserisce la Terra che ritiene di avere un maggior diritto avendo fornito la materia prima. Interviene come arbitro Kronos il tempo che delibera quanto segue: alla morte della creatura Giove, che ha infuso la vita, ne raccoglierà l’anima, la Terra riceverà il corpo tratto dalla creta, ma finché sarà in vita Cura dovrà occuparsene sempre. Kronos decreta poi che l’essere si chiamerà Homo perché dalla terra, humus è stato plasmato.
Se l’uomo è uno zoonpolitikon, – un animale politico nel senso letterale di abitante della “polis” – significa che è un essere ontologicamente relazionale, per questo non può sussistere, né costruire una efficace cornice di senso se non all’interno di trame relazionali che lo rendono allo stesso tempo interdipendente e vulnerabile.
Adriana Cavarero dedica il suo ultimo libro dla titolo Inclinazioni, critica della rettitudine, allo schema etico posturale dell’inclinazione. L’inclinazione è svalutata come degenerazione, come deterioramento, abbassamento, mentre la giustizia, l’elevazione morale sono rette, verticali, inflessibili.
Al contrario, l’autrice opera una decostruzione di tale dispositivo metaforico proponendo, invece l’inclinazione come figura dell’accoglienza e della capacità di sporgersi verso l’altro, flettersi in un movimento chino che ha la figura dell’ellisse con due fuochi e non la circolarità concentrica della sfera e del suo abbraccio perfetto. Immagine iconica è la Madonna di Leonardo con sant’Anna, curva mentre con naturalezza e spontaneità tende le braccia al Bambino.
L’atteggiamento della cura, secondo Chiara Giaccardi esprime una reciprocità asimmetrica, ma anche dinamica: chi si prende cura oggi può essere oggetto di cura domani, in uno scambio che è alla base anche della tenuta delle relazioni tra generazioni.
Se, secondo l’indovinello della Sfinge, l’uomo è l’essere che cammina e lo fa non solo a due zampe a mezzogiorno, ma anche al mattino a quattro, gattonando, e a al crepuscolo a tre arrancando con il bastone, allora significa che nel nostro immaginario filosofico dobbiamo includere anche la fragilità dell’infanzia e la debolezza della vecchiaia, due momenti della nostra condizione non meno umani.
Prendersi cura è allora al cuore non solo di ogni azione formativa, ma di ogni autentica interazione umana, alla ricerca di nuovi equilibri che permettano solo di stare al mondo, ma di rimetterci al mondo reciprocamente in una azione generativa fatta di pazienza, di fedeltà, di custodia reciproca, di costanza e di perseveranza.