Stanno in questa disarmante risposta: il cuore della giustizia, che opera affinché qualsiasi uomo, come Mary Jane ci insegna, venga riconosciuto nella sua fragilità e nelle possibilità, a volte nascoste, di rialzarsi dopo essere caduto, senza essere inchiodato dal giudizio implacabile dei suoi simili; il cuore della misericordia, che della giustizia è affiatata sorella, e che separate, privano l’uomo della possibilità di una vita gioiosa, intensa e feconda.
Ritornando alla domanda che il reverendo pone e alla risposta che Mary Jane dà, in realtà accediamo ad una quaestio che affascina e tormenta l’uomo da sempre: il rapporto tra amore e odio, tra bontà e cattiveria e, per i credenti cristiani, tra il peccato e il suo perdono.
Temi che hanno impegnato innumerevoli schiere di pensatori.
Chi scrive, senza la pretesa di rispondere in modo neanche lontanamente esauriente, propone ai lettori, per accenni, la riflessione che Roberta De Monticelli fa del pensiero di Agostino, in uno straordinario suo libro L’allegria della mente. Ed il motivo della proposta risiede nel fascino del legame ipotizzato tra lo spirito, il riposo e la misericordia.
“Nutre la mente soltanto ciò che la rallegra” è uno scritto che si trova nel XIII Libro delle Confessioni, il capolavoro di Agostino d’Ippona, dedicato allo Spirito Santo. «Quando si dice che il tuo spirito riposa su una persona, si dovrebbe dire che la fa riposare in sé», dove il riposo ha molte affinità con il silenzio, che non è assenza di rumore, ma pausa portatrice di senso.
Perché il riposo ci ricrea? Perché è libertà dalla pressione del dover rispondere immediatamente ad alcune esigenze poste dal reale: ad esempio cose da fare, libri da leggere, lettere da scrivere.
Nei migliori momenti di riposo viene spontaneo sentirsi come un porto o una baia, un luogo di approdo, che accoglie e registra, come un’acqua chiara, tutto ciò che naviga. Il riposo può favorire la riflessione; il silenzio cercato e trovato può diventare preghiera, ascolto dello spirito.
Già, ma che cos’è spirito? Nel senso del greco pneuma e del latino spiritus, esso esprime l’idea del soffio e del respiro o del vento che soffia dove vuole. Nell’antropologia cristiana e nella magistrale concettualizzazione che si trova nelle Lettere di Paolo, esso è il soffio che ravviva, il raggio che accende, la scintilla che dà vita al fuoco. Insomma, l’energia che ravviva e che suscita in noi meraviglia. Quel senso di meraviglia a cui Paolo di Tarso non smette di educarci nella descrizione della bellezza del creato, e nel suo vertice: l’uomo.
L’unicità di ciascuna persona è la fonte che conferisce al suo essere nel mondo il carattere ontologico nel senso che non dipende, questo valore, da qualità positive che alcune persone posseggono e altre no (bontà, simpatia, talento). Esiste un valore irrinunciabile delle persone come tali o come individui: ciascuno con il suo nome, la sua storia, la sua personalità. Il fatto che esistano gli aguzzini, i serial killer, i carnefici e i dittatori ci fa pensare al fatto che un essere si fa per gradi: si cresce o decresce, si matura oppure no, ci si rattrappisce. Ma tutto questo non intacca il suo unicum. Anche se, lo ripetiamo, questo essere può non farsi o disfarsi: e allora l’uomo vive un livello di maturazione prossimo allo zero. La grande letteratura e la saggistica storica sono concordi nel mostrarci il “vuoto interiore” che abita i grandi professionisti della distruzione.
E allora esperienza dello spirito è, secondo Agostino, magis esse, “più essere”, e implica il “lavoro dentro di sé”, la relazione con l’altro da sé. La ricaduta più importante dell’esperienza dello spirito è la conoscenza di sé ed essa avviene attraverso un venire ad esistenza di strati di sé che “dormivano”. E avrebbero potuto forse dormire per sempre. Quanti semi caduti in terra arida. In questo è la drammaticità del nostro percorso, accidentato, di maturazione. Insomma, la ricaduta principale dell’esperienza dello spirito è il divenire sé, oltre quello che si sapeva, credeva o ci si illudeva di essere. È fiorire, portare frutto. E quando questo non avviene si amplia “la regione della dissomiglianza”, strana espressione agostiniana, cioè lo scarto tra quello che siamo e quello che potevamo divenire.
Noi, indipendentemente dal lavoro che esercitiamo, appena abbiamo un momento libero facciamo della ricerca. Leggiamo, andiamo a teatro, al cinema o ad un concerto. Tutto questo è ricerca. Ed in questa ricerca il piacere gioca un ruolo molto particolare. Perché amiamo le buone conversazioni, conoscere persone nuove o approfondire la conoscenza di quelle che ci hanno colpito? Per lo stesso motivo per cui andiamo a teatro, al cinema, a visitare un museo. Il piacere ci indica che siamo sulla buona strada. Così come la noia, la frustrazione, ci danno una caratteristica sensazione di smarrimento.
La conoscenza di sé non ha fine se non con la nostra morte, e può essere particolarmente lunga, faticosa, anche dolorosa. Non ci sono scorciatoie.
Attraversare tanti libri, tanti quadri, tanta musica, tante città, tanti paesaggi, farlo con competenza e precisione, ponendo le domande giuste, scegliendo i percorsi giusti, distinguendo, raccogliendo, riordinando l’essenziale… Tutto questo richiede studio, rigore metodologico e impegno di intelligenza, lavoro e accumulazione del sapere. «Nutre la mente soltanto ciò che la rallegra» vuol dire tutto questo. «E più largo, dicendo questo, mi sento ch’io godo» (Dante, Paradiso, XXXIII; 92-93).
Agostino si è impegnato in questa ricerca introducendo il modello della conoscenza personale, che contempla:
– il contatto con l’altro da sé al posto della distanza;
– il coinvolgimento;
– l’entusiasmo al posto dell’impassibilità;
– la “generosa dissipazione” del figliol prodigo invece della sicura identità del figlio che rimane a casa.
Per Agostino, la conoscenza di sé stessi è inseparabile dal rapporto con la Trascendenza che la fonda e la continua e che necessita innanzitutto dell’attenzione, atteggiamento che permette di andare verso di sé, in profondità. La persona distratta è quella che si ignora, e si ignora perché vive “fuori di sé”, fuori dal suo centro che è il suo cuore non privo d’inquietudine, sentimento agostiniano per eccellenza.
Allora diventare misericordioso è l’esito felice di un duro, a volte durissimo lavoro di scavo e integrazione dentro di sé, perché solo chi è capace di riconoscere e godere delle bellezze del mondo e di quelle che ospita dentro il proprio mondo interno, e condividerle, è in grado di mettere in pratica, non senza difficoltà, il più grande comandamento: «Ama il prossimo tuo come te stesso e anche un po’ di più».