A volte ci sono questioni che sembrano di scarsa rilevanza ma che a guardarle meglio rivelano tratti insospettati: è il caso degli assorbenti femminili.
Per secoli le donne hanno dovuto utilizzare mezzi di fortuna per combattere il flusso mestruale finché nel ‘900 sono arrivati gli assorbenti, simbolo, tra gli altri, dell’emancipazione femminile. A distanza di un secolo questa conquista non smette di essere vista come un privilegio.
Ogni donna nella sua vita può fare a meno di tante cose ma ce n’è una di cui non può veramente privarsi: gli assorbenti. Le mestruazioni arrivano infatti ogni 28 giorni per un totale di 13 cicli l’anno e durano in media 5 giorni nei quali bisogna cambiarsi ripetutamente per evitare la proliferazione dei batteri. Ogni donna, nell’arco della sua vita, ha quindi circa 520 cicli mestruali e consuma una media di 12 mila assorbenti. Questi hanno un prezzo medio di 4 euro a confezione, che ne contiene circa 14.
Per la legge italiana gli assorbenti sono un bene di lusso e non di prima necessità e sono quindi tassati al 22%. Il calcolo è presto fatto: in media le donne spendono 126 euro l’anno, 1700 euro nell’arco della vita, in assorbenti interni ed esterni. Di questa somma quindi, il 22% va nelle casse dello Stato come imposta sul valore aggiunto (IVA). Può sembrare una cifra irrisoria ma essa va inserita in un più generale quadro di fragilità che riguarda il nostro Paese: il 20,6% delle persone residenti in Italia è a rischio povertà (Istat 2016), vive quindi in famiglie con un reddito disponibile inferiore alla soglia di rischio di povertà. Il 12,1% si trova in condizioni di grave deprivazione materiale. Nel 2017 in Italia le famiglie in condizione di povertà assoluta sono un milione 778 mila (6,9 per cento), per un totale di cinque milioni e 58 mila individui poveri (l’8,4 per cento dell’intera popolazione; cfr. Istat 2017). Per molti di questi individui nessuna spesa aggiuntiva è priva di effetto.
Ma al di là della spesa economica e del reddito dei cittadini, non si può ignorare la questione di principio e la discriminazione che si nasconde dietro di essa. Guardando infatti al fenomeno in un’ottica più ampia si può notare come essere donna “costi” di più che essere uomo. Da uno studio condotto a New York dal Dca, dipartimento per i “Consumer Affairs” che ha il compito di mantenere il mercato equo, è emerso che il fattore di genere incide sul prezzo finale del prodotto e che questo gap è notevole. Nel report sono stati analizzati tutti i prodotti utilizzati nel ciclo di vita, partendo dai giocattoli fino ad arrivare all’abbigliamento, passando per i prodotti per la cura personale: nel complesso circa 800 prodotti diversi. Dal report emerge che i prodotti dedicati alle donne costano circa il 7% in più e questa differenza non è sorretta da alcuna logica di mercato, perché si ritrova sia in quelli dove la domanda è più alta, sia in quelli dove la domanda è più bassa. Le donne quindi subiscono un impatto finanziario significativo e allo stesso tempo hanno più difficoltà ad accedere al mercato del lavoro, e quando vi entrano guadagnano meno dei loro colleghi a causa del gap salariale. Per quanto riguarda l’Italia è stata la ricerca fatta da Idealo ad analizzare la Pink tax. L’indagine suggerisce alle donne di prestare particolare attenzione all’andamento dei prezzi in quanto i prodotti a loro dedicati sono caratterizzati da una fluttuazione media del 49,6%, dato ben superiore a quello relativo ai costi dei prodotti maschili, la cui variazione media si attesta “solo” intorno al 33,5%.
L’Iva sugli assorbenti diviene così la punta di un iceberg che invece nasconde problemi ben più seri e discriminazioni ben più ampie ma che raramente diventano evidenti. Si discute di parità di genere ma è su questioni come questa che invece prendono forma le discriminazioni, con uno Stato che si palesa poco attento e sensibile alle questioni femminili.
La discriminazione dei prezzi nasconde una fondamentale discriminazione rivolta verso le donne in generale. L’ipersegmentazione del mercato rivelerebbe in questo caso una relazione di “opposizione gerarchica”, per come è stata definita dall’antropologo francese Louis Dumont. Il sesso femminile verrebbe definito, in quasi tutte le culture, come una devianza rispetto alla norma maschile, laddove l’uomo è considerato “il rappresentante della specie umana e il prototipo di tale specie”. Questa curiosa operazione culturale si riflette nel marketing con la produzione di numerosi prodotti maschili che non sarebbero percepiti come prodotti “per uomo”, ma come prodotti generici, come la versione standard della categoria merceologica. I prodotti “rosa”, invece, equivarrebbero a prodotti speciali, ovvero a prodotti che, deviano dalla “versione normale”, dalla norma merceologica, e pertanto vengono sottoposti ad un differente regime di prezzo.
L’Iva è stabilita per legge e ricade interamente sul consumatore finale ma le scelte in merito sono talvolta difficili da comprendere: in Italia il gioco del Lotto e le scommesse sono esenti da IVA, i beni primari e deteriorabili hanno un aliquota al 4%, insieme agli apparecchi per vista e udito, e ai manifesti e alle locandine elettorali. L’IVA è ridotta al 10% per merendine, birra, tartufo e cioccolata, che proprio indispensabili non sembrano, come non lo sembrano francobolli da collezione ed oggetti di antiquariato che condividono la stessa percentuale. L’IVA è ridotta al 5% sul basilico e sul rosmarino, ma di assorbenti e pannolini proprio non se ne parla: vengono tassati al 22% come beni di lusso.
Andando a fare un confronto con l’Europa si evidenziano subito ampie differenze: in Francia e Inghilterra troviamo un aliquota al 5,5%, in Portogallo Belgio e Olanda al 5%, in Irlanda, come in Canada è stata addirittura abolita. Questa tassa su un prodotto necessario sembra avere tutta l’aria di una discriminazione verso un determinato gruppo sociale, le donne. Non considerare gli assorbenti come bene essenziale e tassarlo come bene di lusso, compromette infatti la qualità della vita di tutte coloro che non se lo possono permettere.
In proposito sono stati proposti emendamenti per abbassare l’IVA sugli assorbenti e su altri prodotti per l’igiene femminile, ma la discussione in aula li ha bocciati adducendo ragioni di ordine economico. Nel frattempo si sono sviluppate reazioni dal basso, specie da parte dei giovani che dimostrano ancora una volta un’attenzione in più riguardo a questione politiche e sociali.
È nato così su Facebook il movimento Onde Rosa, costituito da giovani ragazze tra i 14 e i 30 anni che hanno lanciato una petizione online per la riduzione dell’aliquota. La petizione, chiamata “Il futuro non è un lusso” è stata firmata da 225 mila persone, un numero quattro volte superiore a quello necessario per indire un referendum popolare. Nonostante ciò non si è ricevuta nessuna risposta politica, suscitando dubbi sull’efficienza dei meccanismi della nostra democrazia e su quanto questa riguardi anche le donne.
Visti i dati e il coinvolgimento popolare sembra legittimo chiedere al Parlamento di riesaminare una questione che ha a che fare con l’equità e la parità dei diritti. A quanto pare, questo viene visto come un problema tutto al femminile, dimenticando che le spese sostenute dalle donne impattano su tutta l’economia del nucleo familiare e quindi anche sugli uomini. Uomini che prevalgono nella scala dei bisogni e nella sfera del mercato del lavoro, in un’epoca individualista dove la logica di mercato ha preso il sopravvento su tutte le sfere etiche e sociali. Una serie di privilegi che sembra gli uomini non vogliano proprio condividere con le donne nonostante esse rappresentino circa il 51% della popolazione in Italia. Tutto ciò riflette un arretramento culturale e sociale e una struttura patriarcale che tenta di perpetuare la subordinazione femminile attraverso la leva economica.
La battaglia della Tampotax non è solo una questione economica e di aliquote ma è una questione di rispetto, dignità e parità.
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