La riforma del mercato del lavoro italiano, di fatto iniziata con la riforma Dini delle pensioni, ha avuto tre tappe importanti: il pacchetto Treu (legge n. 196/1997) la legge Biagi (legge n. 30/2003) e la riforma Fornero (legge n. 92/2012). Le prime due riforme hanno cambiato quasi tutta la normativa sul mercato del lavoro e sui servizi per l’impiego, ma non sono state accompagnante da una adeguata politica di flexicurity in grado di offrire sicurezze sociali per il lavoro flessibile. Secondo qualche osservatore infatti questi interventi normativi hanno in realtà assecondato le tendenze alla frammentazione del mercato del lavoro e degli assetti delle imprese, aggravando gli effetti negativi della flessibilità, avallando la precarietà. Diverse sono state le proposte successive di riforma del mercato del lavoro (Boeri T. e Garibaldi P, 2008; Ichino P., 2009) e di ampliamento dei diritti dei lavoratori con l’obiettivo di offrire maggiore tutela e sicurezza (Amato G., Treu T. e altri, 2002). In particolare va segnalata quella presentata da Pietro Ichino che si proponeva esplicitamente l’obiettivo di portare il sistema italiano verso un regime di flexicurity. Ma solo la riforma Fornero, se consideriamo l’impianto generale e l’equilibrio complessivo del provvedimento, si ispira in modo chiaro alla flexicurity. Infatti secondo Tiziano Treu (2012) questa legge, pur con tutti i suoi limiti, “ha tentato di introdurre importanti correzioni all’equilibrio mediterraneo verso la flexicurity europea su tre blocchi della disciplina: la flessibilità in entrata, la nuova regolazione dei licenziamenti ed il riassetto degli ammortizzatori sociali” con l’istituzione dell’ASpI e della mini AspI.
La flexicurity in Europa
La comunicazione del 2007, che sviluppa le premesse emerse già nel 2006 dal Libro Verde Modernizzare il diritto del lavoro per rispondere alle sfide del XXI secolo, esplicita alcuni principi comuni sulla flexicurity, tentando anche una sua definizione: “La flessicurezza può essere definita quale strategia integrata volta a promuovere contemporaneamente la flessibilità e la sicurezza sul mercato del lavoro. La flessibilità, da un lato, ha a che fare con i momenti di passaggio ("transizioni") che contrassegnano la vita di un individuo: dal mondo della scuola a quello del lavoro, da un’occupazione a un’altra, tra la disoccupazione o l’inattività e il lavoro e dal lavoro al pensionamento. (…)”. La flessibilità assicurerebbe ai lavoratori migliori posti di lavoro, una discreta mobilità ascendente e l’ottimale sviluppo dei talenti. Il concetto di sicurezza è qualcosa di più che la semplice sicurezza di mantenere il proprio posto di lavoro: significa dotare le persone delle competenze che consentono di progredire durante la vita lavorativa e le aiutino a trovare un nuovo posto di lavoro. Per questo la flessibilità porta con sè anche la necessità di organizzazioni del lavoro flessibili, capaci di rispondere con efficacia ai nuovi bisogni e alle nuove competenze richieste dalla produzione.
La crisi del 2007 ha limitato l’implementazione della flexicurity, ma oggi sta riprendendo vigore con la strategia denominata Europa 2020, lanciata dalla Commissione Europea per ripensare lo sviluppo, dove l’applicazione di una intelligente flexicurity dovrebbe comportare una migliore gestione delle transizioni economiche, la lotta alla disoccupazione e l’aumento della produttività del lavoro, riducendo la segmentazione dei mercati del lavoro e incentivando le politiche della formazione, con il coinvolgimento delle parti sociali.
– gli accordi contrattuali flessibili e con politiche attive di sicurezza sociale;
– i diritti e le responsabilità tra tutti i soggetti in campo (datori di lavoro, lavoratori, autorità pubbliche);
– la variabilità dei mercati del lavoro con la rigidità delle relazioni industriali;
– gli interessi degli insider con quelli degli outsider (ossia di chi è dentro e di chi è fuori del mercato del lavoro);
– i tempi e i ruoli dei diversi soggetti sociali (le donne, i disabili, i migranti, gli anziani…).
In sintesi si potrebbe affermare che con questo modello “le forme contrattuali flessibili si bilanciano con un’adeguata protezione sociale e tutela nelle transizioni professionali, da strategie di qualificazione e riqualificazione attraverso la formazione, dalla garanzia di buone condizioni di lavoro”. (Massimiani, 2008)
Punti di debolezza
– il ridimensionamento del ruolo della negoziazione sindacale;
– la deresponsabilizzazione delle imprese a causa di un intervento pubblico attuato con gli ammortizzatori sociali (lo Stato infatti, nella logica della flexicurity, è il terzo contraente nel rapporto di lavoro e rischia di sottrarre responsabilità all’impresa circa il destino del lavoratore);
– l’accettazione dell’idea di perdere il lavoro, con la previsione di introdurre forme di tutela anche quando si parla contesti come quello italiano (e dell’Europa meridionale in genere) non ancora dotati di strumenti adeguati di protezione, con un debole sistema pubblico di servizi per l’impiego e con un mercato del lavoro poco dinamico;
– il lento abbandono dell’idea dei diritti sociali ed in particolare del diritto al lavoro, porta con sè l’abbandono della logica politica e democratica che sorregge un certo modello sociale: “Pretendere dalle persone presenti sul mercato del lavoro di perfezionare continuamente la propria “adattabilità”, senza potersi appellare a diritti, significa indurle a “portare al mercato” ogni singola goccia del proprio tempo. (…) Un mondo di uomini e donne flessibili perde la forza di essere una polis”. (Ilaria Possenti, 2012)
Secondo importanti studiosi come Luciano Gallino e Luigi Campiglio, il modello della flexicurity è difficilmente esportabile dalla Danimarca ad altri contesti. Nel Paese scandinavo le politiche attive del lavoro e di sicurezza sociale si depositano su un tessuto sociale e un apparato istituzionale caratterizzato da una forte fiducia nel legame comunitario.
Diversi autori concentrano la loro analisi sull’orientamento neoliberista delle politiche economiche e sociali occidentali, individuando nella flexicurity uno strumento di tali politiche. La flessibilità postfordista produrrebbe non solo precarizzazione materiale e sociale, ma anche potenti effetti di desoggettivazione e precarizzazione della cittadinanza (Richard Sennet 1999; Zygmunt Barman 2000; Luciano Gallino 1997). In sostanza questi autori negano la possibilità di far coesistere flessibilità e sicurezza.
Per Accornero (2005) la flessicurezza richiede di riprogettare i sistemi di protezione e di sicurezza sociale oggi presenti in Italia, adottando misure tese ad assicurare a tutti la continuità dei diritti di cittadinanza del lavoratore pur nella discontinuità dei percorsi lavorativi. Secondo Gallino (2014) la flessicurezza non riesce a ridurre le situazioni di precarietà ma si limita ad attenuare gli effetti delle interruzioni nell’occupazione. “I lavori flessibili comportano rilevanti costi personali e sociali, a carico dell’individuo, della famiglia, della comunità. (..) Il lavoro flessibile è capace di presentare i conti anche tra dieci o vent’anni: quando la giovinezza sarà passata e le lacune nella formazione, i progetti di vita rinviati e mai realizzati, le esperienze professionali frammentarie comporranno un curriculum di fronte al quale un responsabile dopo l’altro delle risorse umane scuoterà mestamente il capo”.
Il pensiero delle Acli
Nel 2009 le Acli lanciano la campagna “Verso uno Statuto dei lavori” con l’obiettivo esplicito di dare un contributo per l’ampliamento dei diritti e delle tutele soprattutto verso quei lavoratori che ne sono privi. In continuità con l’impegno per una flessibilità sostenibile viene proposta un’ampia riforma degli ammortizzatori sociali da coniugare all’adeguamento delle politiche attive, prevedendo in particolare la partecipazione attiva dei lavoratori a percorsi di riqualificazione e reinserimento.
Bibliografia
Acli, Manifesto per la flessibilità sostenibile, Aesse, Roma 2002.
Acli, Verso uno Statuto dei lavori, Roma 2009.
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Bauman Z., La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2000.
Berton F., Richiardi M., Sacchi S., Flex-insecurity. Perché in Italia la flessibilità diventa precarietà, Il Mulino, Bologna 2009.
Boeri T., Garibaldi P., Un nuovo contratto unico per tutti, Chiarelettere, Milano 2008.
Bucci A., La flexicurity: il dibattito comunitario e prospettive di diritto europeo, Università Ca’ Foscari, Venezia 2012.
Gallino L., Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità, Laterza, Roma-Bari 2007.
Gallino L., Vite rinviate. Lo scandalo del lavoro precario, Laterza, Roma-Bari 2014.
Hoffer F., Flexicurity, una promessa disattesa, ILO 2011 in www.lavorodignitoso.org.
Ichino P., Verso un nuovo sistema di protezione del lavoro. Il progetto per la transizione a un regime di flexecurity, in “Formazione & Lavoro”, n. 3/2009.
Leon P., Le politiche economiche monetarie europee e la precarietà, in Leon P., Realfonzo R. (a cura), L’economia della precarietà, Manifestolibri, Roma 2008.
Massimiani C., Flessicurezza e lavoro dignitoso in Europa: una convivenza possibile?, 2008.
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Panzeri A. e Di Nardo F., Nuovi lavori, flexicurity e rappresentanza politica, Jaca Book, Milano, 2008.
Possenti I., Lavoro e diritti sociali. Le premesse neoliberali della flexicurity europea, in Jura Gentium, Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale, n. 2/2012.
Sennett R., L’uomo flessibile, Feltrinelli, Milano 1999.
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Trini A, Flessibilità: il lavoro contemporaneo tra trasformazioni socio-economiche e politiche del lavoro, Università degli Studi di Urbino “Facoltà di Sociologia” 2012, E-text in www.liberliber.it.
Trotta M., Flexicurity: il ruolo delle Istituzioni europee nel difficile percorso verso una crescita economica che non rinneghi il modello sociale europeo, Formez, Roma 2010.
Zoppoli L., La flexicurity dell’Unione europea: appunti per la riforma del mercato del lavoro in Italia, Centro Studi di Diritto del Lavoro Europeo “Massimo D’Antona”, Catania 2012.