“Alla domanda originaria su chi dovrebbe educare alla legalità qualcun altro, perché dovrebbe farlo, e a quale legalità sarebbe opportuno educare, si scopre che la domanda non ha risposte univoche, anzi che si rende necessario aggiungere un’ulteriore domanda parziale: contro chi educare alla legalità? Davanti alla legalità/illegalità, come detto, la pedagogia è collocata, a differenza di molte altre discipline e così come per qualsiasi altra questione educativa, in una posizione scomoda, cioè quella dell’assunzione della responsabilità rispetto al fare, e al fare in un certo modo. L’unico tratto che può essere trasversalmente presente potrebbe essere ricondotto all’assunzione di responsabilità di scelta intellettuale e civile degli educatori e degli educandi, e per farlo è necessario favorire la critica dell’illegalità e della legalità sottoponendo entrambe a un’azione rigorosa delle loro ambivalenze, doppiezze e contraddizioni” (p.139).
Se il fine della educazione alla legalità è formare un buon cittadino con un senso dello Stato adeguato alla convivenza civile e alla partecipazione alla costruzione del bene comune (capitolo 1), non è sufficiente fare conferenze ma è necessario che si sviluppi una alleanza pedagogica tra gli insegnanti della scuola, soggetto importante nei processi di socializzazione alla vita pubblica dei giovani, i genitori, i giovani e altri attori della comunità in cui si sviluppano altri fattori che incidono sulla socializzazione primaria.
L’autore volutamente, a volte anche con ironia, sfata il mito e l’ideologia dei buoni da una parte e i cattivi dall’altra. Tutti siamo coinvolti in una trama di legalità e illegalità che deve ogni volta essere districata con pazienza e intelligenza, senso critico fondato su valori chiari e sufficientemente condivisi.
L’educazione è sempre educazione alla responsabilità, più che all’uniformità di comportamenti alle leggi. Se queste non vengono interiorizzate, comprese nella loro dinamica storicità, messe in discussione nella loro “sacralità”, i rischi di formare cittadini obbedienti, invece che responsabili è sempre presente.
Se i cittadini obbedienti sono un vantaggio per mantenere lo status quo che privilegia la classe dominante e la cosiddetta “pace sociale”, i cittadini responsabili sono un vantaggio per quasi tutti, comprese le istituzioni, perché aiutate a realizzare quel bene comune cui sono chiamate per dovere istituzionale. I cittadini responsabili sono un problema per chi vuole invece vivere al di fuori o al di sopra delle leggi, o anche solo seguirle parzialmente finché non contrastano con i propri fini di conquista e utilizzo del potere
In una nazione come l’Italia c’è una consistente parte della popolazione che non vuole vivere nella legalità, ma vuole approfittare dello stato per fini esclusivamente personali (capitolo 3). C’è una educazione alla illegalità (capitolo 4) diffusa, non istituzionale, ma con una presenza vivace e significativa. Riconoscerlo vuol dire assumersi una responsabilità civile che metta in conto che si genererà un conflitto da gestite in modo legale, conflitto che a volte assume anche il rischio per la propria vita personale, che diventa così testimonianza concreta con un valore pedagogico inestimabile, perché palesa i valori fondanti lo Stato e il bene comune.
Il capitolo 2 aiuta a comprendere meglio la sequenza teorica norma-infrazione-sanzione e la sua problematicità. Se in teoria tutto funziona, in pratica le ambiguità e le commistioni tra legalità e illegalità rendono più complesso il discernimento di come applicare la sequenza teorica.
Il capitolo 5 presenta oggi la pratica dell’educazione alla legalità, soprattutto nella scuola pubblica, gli stili educativi presenti, la questione giovanile, gli strumenti che si è data l’istruzione pubblica, chiamata sempre più a diventare educazione alla cittadinanza.
Sergio Tramma, Legalità e illegalità. Il confine pedagogico, Laterza, Roma-Bari 2012.
Citazioni
“L’educazione alla legalità può diventare un orientamento e un processo lineare e senza sofferenze teoriche solo per chi aderisce completamente allo status quo esistente” (p. 130).
“Il quadro di riferimento valoriale posto da don Milani è chiaro: l’esistenza della questione non sta solo nell’obbedire a leggi giuste, quanto cambiarle quando non sono giuste, cioè assumersi la responsabilità di giudicarle. E’ un’educazione dunque alla responsabilità, cosa diversa dall’educazione alla legalità, che si pone su un piano di riflessione e azione più complesso, meno tutelato da autorità che garantiscono direzioni e orientamenti, meno assolutorio o colpevolizzante a priori: è l’assunzione della responsabilità della disobbedienza, pari all’assunzione della responsabilità dell’obbedienza” (p. 133).
“L’educazione alla legalità nasce (quando nasce) sulla base della stipulazione di un’alleanza di condizioni, interessi e intenzioni da parte di soggetti che sono in grado di produrre un progetto educativo sufficientemente credibile, anche se non di conseguenza sufficientemente creduto, che tenda a modificare i rapporti tra le forze e l’attrattività della legalità e dell’illegalità presenti sul campo” (p. 137).
“L’educazione alla legalità […] non può essere pensata solo o prevalentemente come promozione di azioni aggiuntive, compensative, correttive, che raddrizzino i consueti percorsi educativi […] L’educazione alla legalità non è neppure un’operazione che può essere pensata ‘a costo zero’, come un gioco al quale a tutti converrebbe giocare […] (Essa è) una pedagogia che non può che essere dell’aut-aut, cioè che recupera il valore dell’antagonismo, della scelta tra alternative inconciliabili, e anche del conflitto, o che quanto meno esercita una funzione critica nei confronti di un adattamento all’esistente” (p. 138).