Carlo Formenti, militante di lungo corso della sinistra radicale, sociologo e scrittore, propone una lettura originale dei populismi, come ormai quasi unica forma di lotta al sistema capitalistico di cui ritiene necessario uscirne in quanto irreformabile in una direzione più umanistica e meno individualista.
L’interesse per questo volume non è tanto per la tesi, classica per la visione marxista, pure rivisitata con occhio critico dall’autore, ma piuttosto per l’analisi puntuale e, ritengo, non ideologica, delle classi sociali nelle loro concrete esperienze di vita e della loro rappresentanza politica, a partire soprattutto dal lavoro concreto dove il rapporto di forza tra capitalisti e lavoratori oggi si fa sentire con più forza.
“Questo libro descrive il conflitto sociale contemporaneo come guerra tra due mondi che, benché mantengano relazioni reciproche (da materialista continua a pensare che la realtà sia unitaria), appaiono sostanzialmente incompatibili, irriducibili l’uno all’altro e dunque ‘nemici’ nel senso forte che Carl Schmitt attribuisce a questo termine: mi riferisco al mondo immateriale e leggero – in realtà materialissimo e pesantissimo dei flussi (di segni di valore, merci, servizi, informazioni e membri delle élite che li governano) e al mondo dei luoghi in cui vivono i corpi di coloro che chiedono cibo, casa, lavoro e affettività. Tronti ha scritto in varie occasioni che il movimento operaio ha iniziato a perdere quando ha iniziato a correre; ha perfettamente ragione: è lasciandosi incantare dalle categorie borghesi di modernità, progresso, innovazione, velocità, efficienza, ecc. che la sinistra, nell’illusione di competere con il capitale sul suo stesso terreno, sì è progressivamente convertita ai principi e ai valori del mondo dei flussi e ha abbandonato al proprio destino il mondo dei luoghi, recidendo in tal modo le sue stesse radici” (p. 257).
Il libro si presenta diviso in quattro capitoli.
Il primo capitolo, I denti del capitale, è una analisi della situazione globale, in particolare dell’Occidente, con un focus originale sulla rivoluzione digitale e dei suoi lavoratori considerati non i più fortunati, ma i nuovi proletari.
Il punto di partenza è la svolta da imprese orientate alla massimizzazione della produzione alle imprese orientate alla massimizzazione del profitto, con conseguente finanziarizzazione.
Sul versante politico c’è stata una scelta a favore della deregulation dei mercati e della defiscalizzazione degli utili e dei grandi patrimoni, che ha aperto la strada all’incremento dei debiti pubblici con conseguenti richieste di ripianamento attraverso la riduzione del welfare.
Il paradigma ordoliberista dominante, secondo l’autore, implica il passaggio da un mercato concepito come luogo della scambio a un mercato concepito come concorrenza e, attraverso le tecniche valutative, riduce lo spazio di confronto politico-democratico a mero calcolo di costi (tasse pagate)/benefici (servizi resi). Si è passati così da cittadini lavoratori a cittadini consumatori.
Formenti analizza poi la (contro)rivoluzione digitale con il suo scopo di far diminuire il lavoro delle persone a vantaggio del lavoro delle macchine. Il focus, a mo’ di esempio, sulla sharing economy e in particolare sul fenomeno Uber chiarisce, a sufficienza, la posta in gioco.
Il secondo capitolo, L’eutanasia delle sinistre, attraverso un’analisi serrata, ragiona su cinque temi:
– la morte della socialdemocrazia, dovuta alla sua scelta di accettare il liberalismo come paradigma entro cui operare, lasciando così spazio alla lotta contro i sindacati e i movimenti di sinistra i quali, non avendo più un riferimento all’esperienza comunista come alternativa al liberalismo, si sono travati senza un potere di contrattazione con il capitale;
– l’uso capitalistico dei movimenti, che hanno di fatto scelto di concentrarsi sulla “critica artistica” del sistema a discapito della “critica sociale” negli anni dal 1968 al 1989. Il capitale ha così incorporato nel sistema produttivo la voglia di maggiore libertà – la novità del ’68 –, a scapito dei diritti sociali conquistati dai sindacati;
– il femminismo di regime, dovuto al fatto che la lotta al patriarcato non si è saldata con la lotta al capitalismo;
– la retorica dei diritti, dovuta allo spostamento dai soggetti collettivi ai soggetti individuali con la conseguenza di essere passati dalla lotta per i diritti sociali a quella per i diritti civili;
– il verde pallido: i movimenti ambientalisti fanno parte della “critica artistica” al sistema capitalistico, rischiando l’assimililazione; l’autore loda invece papa Francesco e l’enciclica Laudato si’, perché «ha restituito al discorso ecologista una congrua dose di critica anticapitalista” (p. 113), il cui limite è quello di una conversione personale negli stili di consumo;
– i territorialisti e i neocomunitari.
Formenti analizza alcuni autori che hanno il merito – pur non arrivando a trarne tutte le conseguenze – di affrontare alcuni temi cruciali: il “recupero della centralità della soggettività collettiva, a partire dall’attenzione alla comunità”; il “recupero della centralità della dimensione territoriale (con particolare riferimento al locale) come luogo di resistenza/contrasto alla colonizzazione economica, sociale e culturale da parte del capitale»; la «critica del paradigma “progressista” – anche nella declinazione “di sinistra” – che esalta la cultura dell’iperaccelerazione tecnologica, della smaterializzazione di beni e servizi, dell’ipermobilità di merci, informazioni e persone” (pp. 118-9).
Nel terzo capitolo, Archiviare l’operaismo, l’autore vuole contrastare le seguenti tesi:
– “il capitalismo contiene un principio immanente che lo guida inesorabilmente verso al sua negazione/superamento, che coinciderebbe con il raggiungimento di un livello di sviluppo delle forze produttive incompatibile con l’attuale modo di produzione;
– le attuali forze produttive sono sostanzialmente neure e quindi misurabili in un contesto non capitalista;
– le nuove forme di lavoro “immateriale” liberano le potenzialità creative degli individui permettendo loro di esprimere liberamente la loro personalità”.
Attraverso un confronto serrato con più autori, Formenti conclude che: “gli operai esistono ancora, anche se “travestiti” – almeno in Occidente – da “operatori del terziario”, e il loro potenziale agonistico si concentra nei settori del cosiddetto “terziario arretrato”, piuttosto che in quelli tecnologicamente avanzati” (p. 157).
L’autore si pone alla fine due interrogativi ineludibili, tenendo conto che ci sono spezzoni di movimenti e classi sociali che lottano in varie parti del mondo, di cui ha portato alcuni esempi: “esiste una condizione condivisa che permetta di saldare le tessere di una coalizione sociale? Dove passa il confine che esclude da tale coalizione strati di classe i cui interessi convergono piuttosto con quelli delle élite dominanti? […] In conclusione: il confine di cui sopra esiste eccome, anche se può spostarsi significativamente in relazione a una serie di varianti economiche, politiche e culturali, e individuare di volta in volta dove si colloca resta un compito fondamentale per chiunque aspiri a costruire un blocco sociale anticapitalista” (pp. 171.175).
Il quarto capitolo, Da fuori, dal basso, è quello in cui Formenti offre la sua proposta condensata nel titolo. L’ipotesi è quella di uscire dallo schema che ciò che conta è solo il capitale per rivalutare il “fuori” come luogo che contrasta i flussi, in altre parole “valorizzare le relazioni comunitarie concepite come alternative alle relazioni astrattamente sociali fra gli individui. Un tema tabù per la cultura di sinistra, che associa il pensiero comunitario all’ideologia di destra” (p. 199).
Lo scrittore passa quindi a considerare varie esperienze di populismi latinoamericani, europei (per il M5s vedi il testo di p. 234 riportato sotto) e statunitensi per valutare se e come possono, in quanto eventi che mettono in discussione la struttura del sistema sociale e politico, diventare motori di possibili rivoluzioni.
Formenti riprende un articolo di Loris Caruso che sintetizza in sette punti le condizioni della crisi che genera il populismo:
– la condotta delle istituzioni è percepita come illegale così da diventare una lotta tra la gente comune e l’élite come totalità compatte;
– un conflitto relativo a uno specifico contesto sociale viene amplificato al punto da poter essere inserito nell’agenda politica nazionale;
– si crea una polarizzazione tra fronte del “sì” e fronte del “no”;
– si diffondo sentimenti di paura e di minaccia a causa di determinate scelte e decisioni politiche assunte dal sistema;
– il conflitto offre l’opportunità di rafforzare i legami sociali in un determinato contesto locale, o attorno ad un obiettivo condiviso, generando solidarietà e nuove forme di socializzazione;
– il fronte della protesta riesce a rappresentare le proprie ragioni in modo non ideologico;
– l’oggetto del contendere è tale da assecondare una narrazione fondata sulla contrapposizione Noi/Loro.
L’autore mostra successivamente le convergenze e divergenze tra populismi e lotte rivoluzionarie per valutarne i pro e i contro, per giungere alla conclusione: «per combattere il colonialismo dei flussi, occorre partire dal basso, organizzando la lotta dei “nuovi barbari”, delle comunità del rancore. Solo laddove si è riusciti a farlo […] si è riusciti a contrastare l’egemonia delle destre sulla rappresentanza degli strati sociali inferiori e a ottenere qualche risultato nel contrastare il dominio coloniale dei flussi sui territori. Ma imboccare questa strada vuol dire compiere un salto di paradigma […] vuol dire assemblare dal basso partiti federativi di tipo nuovo, come il Mas boliviano, vuol dire lottare contro questa Europa, vuol dire non avere paura di rivendicare la riconquista della propria sovranità nazionale. Nessun processo costituente potrà essere messo in atto in assenza di queste condizioni» (p. 258).
Ci sono poi due appendici per approfondire due punti teorici utilizzati nel libro su cui Formenti vuole richiamare l’attenzione per giungere a una migliore teoria marxista per avere uan migliore analisi e quindi una maggiore capacità di lotta.
Carlo Formenti, La variante populista. Lotta di classe nel neoliberismo, Derive e Approdi, Roma 2016.
Citazioni
“Quando la produzione capitalistica non genera più abbastanza profitto, il capitale si rivolge alla rendita come fonte di autovalorizzazione” (p. 14)
“Ciò che oggi conta più di tutto è il valore di mercato dell’impresa, per cui ai manager non viene più richiesto di produrre oggetti e servizi utili, bensì di far crescere il più rapidamente possibile il valore per l’azionista” (p. 15).
“Queste pratiche possono essere sintetizzate nella sostituzione dell’imperativo risparmia e investi con l’imperativo taglia e distribuisci” (p. 16).
“Il processo di «tecnicizzazione» dei mercati finanziari ha svolto un ruolo decisivo nell’ascesa della finanza creativa” (p. 18).
“Nell’analisi fin qui condotta, manca tuttavia un fattore fondamentale: tutto ciò non sarebbe potuto avvenire senza la partecipazione attiva del potere politico” (p. 19).
“Per ora basti ricordare come l’accettazione del paradigma liberista da parte dei partiti socialdemocratici e dei sindacati ad essi associati abbia contribuito in maniera decisiva a far sì che le classi subordinate si presentassero allo scontro totalmente prive di riferimenti politico-culturali e di strutture organizzative in grado di rappresentarne gli interessi. Le due armi di distruzione di massa per vincere la guerra di classe dall’alto contro la forza-lavoro mondiale sono state la globalizzazione e l’economia del debito” (p. 20).
“Una tesi (l’alta marea trascina in alto tutti, n.d.r.) che appare oggi clamorosamente smentita dal fatto che, mentre la disuguaglianza è salita a livelli mai visti, e mentre i capitali «liberati» dagli sgravi fiscali invece di aumentare gli investimenti produttivi alimentano la speculazione finanziaria, i redditi delle classi inferiori continuano a diminuire, anche in valore assoluto” (p. 21).
“Il nuovo paradigma presuppone che la spontaneità debba essere «costruita», nel senso che essa funziona solo se viene costruito un sistema di diritti e sanzioni che vietano le azioni che possano intralciarne l’attività” (p. 32).
“La novità consiste invece nel dimostrare come il mercato chieda oggi allo Stato di «fabbricare» un soggetto pienamente adattato alle pratiche e ai valori delle società di mercato” (p. 33).
“La relazione di mercato assume la forma e il ruolo di un processo di autoformazione del soggetto economico, diviene cioè un processo che autocostruisce il suo stesso soggetto, nel quale le persone imparano ad autogovernarsi, a convertirsi in altrettanti centri di profitto individuale e a interiorizzare le nuove norme di efficienza produttiva. Tali norme poggiano su un duplice pilastro: la concorrenza come valore regolativo assoluto e le tecnologia valutative per la misurazione dei risultati delle attività” (p. 34).
Nella misura in cui si assumono efficienza e rendimento finanziario come obiettivi prioritari, il rapporto fra Stato e cittadini si trasforma in mero calcolo costi (tasse pagate)/benefici (servizi resi), eliminando apriori qualsiasi possibilità di partecipazione e di critica politica, e non meramente economica, all’agire pubblico (p. 35)
“Lenin definiva lo Stato il ‘comitato d’affari della borghesia’. Nelle attuali condizioni storiche, tuttavia, nemmeno questa definizione riesce a descrivere la realtà di un sistema di potere che si fonda su un’integrazione pressoché totale fra élite economiche ed élite politiche (p. 39)
“La convergenza fra élite non è semplicemente questione di interessi, ma rispecchia una visione del mondo che non si propone tanto di «eludere» leggi e regole, quanto di cambiarle radicalmente […] La transizione al regime postdemocratico non è dunque questione di «tradimento» delle regole, bensì un lucido disegno politico che impone agli Stati di uniformarsi alle regole del diritto privato, fondando la propria legislazione sui principi della competizione economica” (p. 40).
“La posta in palio di tutto ciò consiste nel delegare allo stesso lavoratore la funzione di misurare, controllare e incrementare la propria produttività, mettendola continuamente a confronto con quella di colleghi e amici, i quali si trasformano così automaticamente in concorrenti” (p. 58).
“Il merito di aver introdotto un reale elemento di novità spetta invece a Thomas Piketty che non è marxista. Per ragionare sulla disuguaglianza, infatti, non utilizza la lotta di classe bensì quella dei decili e dei centili di reddito e ricchezza patrimoniale, scelta che gli permette di evidenziare, in questo modo, la natura continua del fenomeno. L’insistenza sul fattore della continuità ha il merito di ricondurre il discorso sull’identità di classe al principio definito a sua tempo da Max Weber: appartenere a una classe significa appartenere a una comunità di destino” (p. 172).
“Anche se qui la diagnosi infausta (il capitalismo sta esaurendo il suo ciclo vitale) viene fatta dipendere soprattutto dal rapido e catastrofico aggravarsi della crisi ecologica, non mancano i riferimenti alla saturazione dei mercati globali e alla riduzione degli spazi geografici, sociali e culturali «vergini» da colonizzare. Osservato che la finanziarizzazione non è una novità, visto che ha caratterizzato tutte le fasi B dei cicli di Kondratieff, e che si è sempre trattato di una soluzione provvisoria (né vi sono ragioni per credere che oggi le cose vadano diversamente); osservato inoltre che il nodo crisi-finanziarizzazione è sempre coinciso con l’esaurimento di un ciclo egemonico ed è stato superato solo con l’emergere di una nuova potenza egemone, gli autori sostengono: 1) che i cicli egemonici finiranno quando la periferia sarà esausta e ogni regione del globo integrata nel mercato perché – in assenza di valvole di sfogo e regioni da sfruttare – le fonti del profitto saranno prosciugate; 2) che la situazione attuale è prossimo a questo esito finale che presumibilmente verrà raggiunto nel giro di qualche decennio” (pp. 191-192).
“Il fatto che oggi la democrazia venga concepita esclusivamente in termini di stato di diritto e difesa dei diritti umani, mentre le idee di uguaglianza e sovranità popolare sono state accantonate, conferma che il rapporto fra tradizione liberale e tradizione democratica non è necessario ma è il prodotto di un’articolazione storica contingente” (pp. 203-204).
“Lo slittamento della coppia oppositiva lavoro/capitale alla coppia popolo/élite significa che nel campo populista è impossibile distingue tra destra e sinistra? No, perché come argomenta Loris Caruso, «i movimenti sociali di sinistra e di destra non articolano nello stesso modo la frattura populista. Non scelgono gli stessi nemici e non avanzano le stesse rivendicazioni. Tuttavia, in una certa misura, sottolineano e mettono in luce gli stessi conflitti in merito a temi come la sovranità popolare, i rapporti fra popolo ed élite e fra politica ed economia». In poche parole: si tratta di movimenti diversi, sotto molti aspetti contrapposti, ma che giocano nello stesso campo. Questa comune appartenenza di campo fa sì che, anche se il populismo viene usato da certi movimenti di sinistra come una «tecnica politica», una sorta di mascheramento per ottenere consenso liberandosi di «marchi» ideologici penalizzanti, l’adozione dello «stile» populista è tutt’altro che privo di effetti sui contenuti politici” (p. 206).
“Se alla costruzione del popolo come comunità, associamo quanto scritto nel precedente paragrafo sul conflitto fra logica dei flussi e logica dei luoghi, si capisce come il tema della sovranità popolare possa assumere un rilievo fondamentale anche in una prospettiva di sinistra” (p. 207).
“La grande crisi ha indebolito l’appeal di queste forze politiche, evidentemente incapaci di dare risposte alla sofferenza degli strati sociali medio bassi e coinvolte in scandali che ne cancellavano le pretese differenze dei vecchi partiti. Così si sono create le condizioni per l’ascesa di quel «vero» soggetto populista che è il M5s. Il nucleo socio-culturale attorno a cui nasce il movimento è quella classe creativa italiana che, come ha messo in luce Richard Florida, appare numericamente più debole di quella di altri paesi occidentali, ma anche più incazzata e frustrata. I nostri knowledge workers, hanno accumulato una forte carica di rabbia e risentimento nei confronti di una società e di un sistema economico che non soddisfano le loro aspettative di reddito e di carriera, ma ancor più nei confronti di un sistema politico corrotto, clientelare, nonché innamorato dalla burocrazia e incapace di aggiornamento culturale” (p. 234).
“Tradotto sul piano dell’operatività politica, tutto ciò somiglia alla speranza di Giuseppe De Rita che una forza politica come il M5s possa trasformarsi nel nucleo costitutivo di una «neoborghesia». Se si accetta tale punto di vista, alla comunità del rancore non resta però altro ruolo se non quello di un bacino di consenso elettorale, da strappare all’egemonia dei populismi di destra (non a caso Grillo si è sempre vantato del fatto che il suo movimento ha impedito la nascita di una destra radicale di massa in Italia)” (p. 258).