Vale la pena, per dare ragione della completezza del lavoro di Mauro Pini, descrivere l’impianto complessivo del libro: il primo capitolo "introduce la questione del gioco d’azzardo e traccia gli obiettivi del lavoro"; il secondo descrive i "contributi classici dell’antropologia soffermandosi laddove il gambling è stato eletto ad oggetto di trattazione specifica"; Il terzo propone un "exursus storico delle varie rappresentazioni sociali del giocatore accanito come vizioso e deviante, fino a quelle che dominano lo scenario della postmodernità" (si pensi all’homo consumens di Bauman); il quarto "ripercorre l’itinerario storico-politico che ha portato alla definizione del giocatore patologico come tipo qualitativamente distinto dal resto dei giocatori"; il quinto capitolo "analizza i malati d’azzardo da un punto di vista monodiscipilinare ossia entro in confini dell’antropologia"; Il sesto "passa in rassegna la ricerca etnografica sul gambling"; l’ultimo racconta "la ricerca sul campo rivolta ai malati d’azzardo".
Il volume delinea quindi la figura del giocatore d’azzardo patologico dando una lettura di tipo antropologico nella convinzione che lo studio di questo fenomeno non è riconducibile ai soli aspetti biologici e psicopatologici, come vorrebbe il paradigma biomedico, né solamente alle caratteristiche sociali, politiche ed economiche del contesto di appartenenza, come vorrebbe invece un orientamento di tipo più culturale. Se da un lato l’approccio biomedico non è stato in grado di prevenire il fenomeno senza peraltro intaccare il business che le ruota attorno, dall’altro le critiche sociologiche, che lo mettono in relazione agli aspetti più critici dell’attuale società dei consumi, non spiegano ad esempio l’esistenza del gambling indigeno in varie regioni del mondo in epoche precoloniali, precedenti al contatto con l’Occidente.
Dalle ricerche etnografiche condotte da vari ricercatori in Nord America, Sud Africa ed Europa e dalla stessa indagine effettuata dall’autore nei “non-luoghi toscani dell’azzardo” attraverso interviste ai giocatori patologici e osservazione partecipante nelle sale giochi, emerge l’importanza dello studio del contesto per la comprensione dei significati dell’azzardo ma anche delle peculiarità delle esperienze personali e delle diverse forme e regole di gioco in cui si esprime il variegato universo del gambling.
Tuttavia, i metodi di ricerca qualitativa non devono essere considerati alternativi all’approccio delle neuroscienze e delle metodologie quantitative e di laboratorio quanto piuttosto strumenti compensativi nei confronti della Gambling Industry e della crescente “medicalizzazione” della vita quotidiana che vuole fornire una risposta clinica ad ogni segnale di (in)sofferenza e disadattamento individuale nei confronti di una realtà globale dominata da logiche macroeconomiche spesso imprevedibili. Facendo anche del gioco una malattia. O presunta tale.
Mauro Pini, Febbre d’azzardo. Antropologia di una presunta malattia, Franco Angeli, Milano 2012.
Citazioni
"Si tratta di un lavoro di particolare interesse, perchè costituisce uno dei pochissimi contributi antropologici italiani allo studio del gioco d’azzardo – e l’unico a mia conoscenza che ne esamini a fondo gli aspetti "patologici" -, che offre un ampia e molto aggiornata panoramica sulle diverse prospettive da cui esso è stato esaminato (sociologica, psicologica, clinica, antropologica) che vengono illustrate ed esaminate con lucidità critica, mettendone efficacemente in rilievo pregi e limiti".(Alessandro Lupo – Prefazione)
"L’antropologia non può più permettersi di stare fuori dal gioco (d’azzardo) anche come contrappeso nei confronti della sua indiscriminata promozione a servizio della Gam(bl)ing Industry e dello Stato biscazziere, da un lato e della sua psichiatrizzazione dall’altro" (Mauro Pini – Conclusioni)