Per esempio la parola classe. Il conflitto di classe, la lotta tra capitale e lavoro, appare ormai un conflitto morto e sepolto. Questa segnaletica teorica è scomparsa. Esistono allora altre linee di divisione? Il mondo scopre che non c’è un conflitto principale, perché ci sono conflitti diversi: religiosi, territoriali, di classe, di razza… Esiste una molteplicità, perché la politica non è solo l’arte di governare la città, ma anche la moltitudine sia silenziosa sia rumorosa.
La sinistra pensa che la storia sia progressivamente inclusiva. E agli effetti da quando è nata, per la sinistra è stato così (più o meno: la prima guerra mondiale aveva superato lo schema di classe), fino al culmine degli anni ’70 del secolo breve. Ma poi la globalizzazione ha cambiato gli attori in campo. Non più solo il proletariato, la borghesia e lo Stato che media. Nel “gioco” (che rimane a somma zero: perché ai successi del capitale fanno fronte gli arretramenti del lavoro) entrano Paesi nuovi, mercati nuovi, le multinazionali, gli enti internazionali… Cambiano le regole e i sogni collettivi. Il capitalismo acquista un nuovo spirito e nuovi adepti, spira – anche tra i proletari – il vento del successo. Non importa se questo gioca presenta un conto pesante, con dei perdenti gravi: anzi, proprio la loro presenza rende attraente questa corsa selettiva.
Di fronte a questo cambio di scenario, la sinistra ha assunto un atteggiamento difensivo. A parte improbabili e astratte prospettive lillipuziane o internazionaliste, da dove partire? Occorre partire anzitutto da alcuni fatti: i diritti che si ridimensionano perché il capitale ha assunto grande libertà di movimento; i diritti che sono tutti importanti ma vanno ricompresi in un orizzonte di compatibilità, perché non tutti sono omogenei; il dovere di accoglienza che mette in difficoltà soprattutto chi è meno tutelato; il rapporto tra diritti e risorse economiche e umane che ormai è al limite; la globalizzazione che induce a forme di concorrenza mondiale tra lavoratori… Riconoscere questi fatti non significa accettare gli squilibri e le sempre progressive (queste sì…) diseguaglianze sociali. Per la sinistra significa semmai ritrovare un compito, ovvero mettere insieme, ricomporre un popolo, quello che Mauro Magatti chiama nuovo ceto popolare.
La sinistra esiste anche per smascherare e combattere i meccanismi che fanno morire alcuni e vivere nella lussuria pochi altri. Occorre allora costruire convergenze diverse (e non semplicemente marcando nuovi mercati elettorali), allargare il blocco sociale, riscoprire il ruolo dello Stato, valorizzare l’idea (cattolica) di persona. Il libro si conclude affermando che occorre resistere anche alla tentazione di scomunicare il mondo che viene e sublimare una vecchia gioventù a scapito delle successive. Dunque ricostruire un popolo, el pueblo unido. Torneremo popolari?
Citazioni
L’esistenza visibile e inevitabile di un esercito di perdenti non falsifica il mito del successo perché appare come l’effetto necessario di un processo selettivo.
[…] I diritti conquistati e da difendere riguardano solo una frazione dei lavoratori di tutto il mondo.
All’egemonia del capitale bisogna tentare di opporne un’altra, costruendo un blocco sociale capace di tenere insieme, in una fase storica diversa, le ragioni dei diritti e quelle della competitività, superando vecchie polarizzazioni e invitando giocatori abituati a contrapporsi a giocare insieme per produrre un vantaggio comune"