Il libro è interessante perché offre uno sguardo disincantato sulla fase presente di trapasso d’epoca, rimanendo aperti, l’uno e l’altro, al novum che verrà.
Tre sono le parole chiave che si intrecciano nel loro pensare: profezia, utopia e democrazia. Uno strano accostamento tra religione e politica che può meravigliare chi ritiene – per certi versi giustamente – separati questi due ambiti, che tuttavia si intrecciano inestricabilmente nella nostra società, se non altro per i trascorsi passati dell’occidente ebraico-greco-latino-cristiano.
I due saggi si intersecano l’uno con l’altro, anche se seguono percorsi diversi e proprio in questo sta il fascino di questo scritto.
Paolo Prodi, professore emerito di Storia moderna all’Università di Bologna, ripercorre la vicenda europea dalle origini del cristianesimo ad oggi riproponendo la sua interpretazione della chiesa come profezia istituzionalizzata che, nel rapporto con lo stato, si sviluppa in diverso modo tra Occidente ed Oriente.
La profezia, dopo la venuta di Gesù, non scompare ma si incarna nella chiesa come comunità di fedeli e così sviluppa un dualismo prima sconosciuto tra potere politico e potere sacro, così come si era dato nell’impero romano.
Prodi non ritiene che la politica moderna nasca dalla secolarizzazione della religione, tesi che va per la maggiore, ma dall’incontro dialettico tra il polo religioso e quello politico «con un processo di lotta ma anche di osmosi per il quale la Chiesa tende a politicizzarsi (il punto massimo di questo processo è la monarchia papale dell’età moderna) e lo Stato tende ad assumere le funzioni, prima riservate alla Chiesa, di formazione e modellamento del cittadino suddito, dalla nascita alla morte, modellamento che sfocerà poi nella religione della patria» (p. 31).
Prodi ripercorre dunque le vicende storiche illustrando questo rapporto-osmosi tra i due poli, evidenziando come questo processo tenda ad emarginare, nelle varie chiese, la profezia, facendo così venire meno il senso dell’essere chiese e la loro funzione nella storia dell’umanità.
Viene meno la capacità di essere lievito della storia per diventare fautori di una religione civile o di una religione politica. La religione civile «nella quale Dio è garante di un patto politico che gli uomini giurano nella loro costituzione», la religione politica come «politica che tende ad assorbire la religione al suo interno costruendo le nuove divinità della nazione, della classe, della razza» (p. 41).
Lo Stato esce vincitore dalla contesa con la chiesa su chi deve modellare l’uomo, tuttavia importa dalla chiesa una quota non indifferente di sacralità.
Questo comporta dei contraccolpi nella chiesa rispetto al suo essere profezia istituzionalizzata. «Il problema di oggi è determinato dall’ingresso in un’età in cui l’alterità – il dualismo tra il potere politico e il sacro – non può più essere espressa in un rapporto Stato-Chiesa come si è realizzato nei secoli dell’età moderna, data la crisi istituzionale dello Stato e della Chiesa, data la perdita della “sovranità” territoriale sia in campo temporale che in campo spirituale» (p. 48), poiché se lo è conquistato il mercato, aggiungo io.
Prodi paragona papa Francesco a Mosè (cfr. Num 11,25-29), condottiero e profeta allo stesso tempo, che permette che la profezia si manifesti anche nell’accampamento, affermando che questo è un bene.
Lo scontro e la dialettica tra Chiesa di popolo e Chiesa gerarchica non era – secondo Prodi – la vera questione che lui identifica nella dialettica Chiesa istituzione e Chiesa profezia, questa sì che sta facendo da levatrice al nuovo.
Di tutt’altro tono è la riflessione di Massimo Cacciari, eminente filosofo, che si immerge anche lui nell’agone della nostra storia. Già il titolo del suo saggio ci dice lo svolgimento del suo pensiero: “Grandezza e tramonto dell’utopia”.
Le utopie sono state il motore della storia moderna indicando una strada per l’agire politico partendo dalle condizioni del presente.
«L’utopia è essenzialmente l’idea di un evolversi della storia verso un futuro se non precisamente calcolabile, certo paradigmaticamente valido, nella sua immagine, a orientare l’agire presente. Futuro che l’uomo è ritenuto capace di perseguire e raggiungere obbedendo sostanzialmente a null’altro che alla propria ragione e alla propria natura» (p. 66).
La profezia, invece, vede la storia come epifania divina, dialogo-conflitto tra la volontà di Dio e quella del popolo che egli ha eletto. La speranza del profeta risiede in ciò che ha ascoltato in perfetta obbedienza.
Cacciari ripercorre in modo sintetico e illuminante la storia dell’utopia mostrando come una «città-comunità non può essere definita soltanto in base ai suoi organismi politico-istituzionali, produttivi e scientifici. Una civitas hominis è anche credenza, speranza, fede» (p. 93). Da qui la necessità per il politico-scienzato di riconoscere la dimensione religiosa, pena la mancanza di una sapienza necessaria per governare la comunità.
Se le utopie considerano l’innovazione tecnico-scientifica il motore dell’Età nuova, tuttavia essa deve svilupparsi un sistema socio-politico integro fondato sulla tolleranza e la libertas philosophandi: questo è il paradigma delle utopie, secondo Cacciari.
C’è tuttavia un contraddizione che abita la forma dell’utopia: il desiderio di voler neutralizzare il rapporto tra volontà di stabilità e durata del sistema politico e la fisiologica inquietudine e criticità delle potenze che nello Stato dovrebbero riconoscersi e assicurarsi reciprocamente. «La neutralizzazione della dimensione conflittuale del Politico si scontra, in Utopia, con la permanente crisi che non possono produrre, se davvero innovativi, i super-attivi artefici che di quella repubblica sono eroi eponimi e che in essa reclamano il primato» (p. 101).
La forma dell’utopia, che ha spinto affinché la scienza-tecnologia potesse dispiegare la sua potenzialità, si trova così a fare i conti proprio con la sua creatura e i suoi attori che vogliono prendere il potere politico. «L’utopia come prefigurazione o immagine di un possibile progetto di armonia tra le energie, le forme politiche e di vita della nuova Età, sembra così destinata al tramonto. Quelle energie si sono in pieno disvelate, e hanno a un tempo disvelato le insanabili contraddizioni che formano il loro stesso rapporto» (p. 103).
Cacciari passa poi a illustrare la critica marxista dell’utopia a partire dal nuovo mondo che avanza le sue pretese di egemonia. Si inserisce nella dialettica tra marxisti una voce ebraica di Scholem. La questione riguarda il rapporto tra presente e futuro. «L’irrompere del divino nella storia, di cui l’età messianica è il sigillo, è puro evento, in nessun modo prevedibile, né anticipabile. La speranza non ne è affatto anticipazione, ma la forma presente in cui noi ora lo viviamo storicamente e nella comunità. Tanto più tradisce l’idea messianica ritenere che una “classe” sia la portatrice del suo realizzarsi» (p. 111).
Le prospettive di Lukacs e di Bloch si intrecciano, ma si dissolvono nella drammatica e tragica situazione attuale. Per Lukacs «il superamento dell’esserci alienato si realizza soltanto attraverso la scienza e l’organizzazione […] Il superamento di questa prospettiva “invoca” quell’altra: venga, allora, il vento che ci giunge dall’avvenire, deus adveniens, anche se non possiamo vederlo, e ci spinga a superare il mondo presente, irrompa la sua verità a negare la razionalità di quest’ultimo» (pp. 123-125).
Cacciari si chiede allora, con più umiltà di Lenin, quid tum (In seguito, che cosa)?
Utopia ha fecondato sia il capitalismo vittorioso che le forze che lo combattuto. Il primo non ne ha più bisogno, ma le seconde dove sono?
Oggi sembra sia precluso la capacità di indicare il punto di crisi, li dove si presenta un taglio che mostra le due sponde del conflitto. I molti conflitti non si riconducono a un orizzonte. I soggetti che vivono questi conflitti sono una moltitudine sradicata, anarchica, senza che emerga una egemonia.
«La perdita della dimensione trascendente di teoria e prassi sembra totale e definitiva. E di nuovo allora la domanda insopprimibile: quid tum? Mettere ordine nel linguaggio, ricondurlo a sobrietà e modestia, ad autocoscienza dei suoi limiti – questo sembra restare»» (p. 129).
L’ultima pagina è significativa dell’animo del filosofo: la domanda quasi non trova risposta se non tenere aperta la domanda: quale rapporto tra un politico puro e l’attesa di Dio?
«Sembra non resti che l’im-politico da un lato, e il sentimento del Deus adveniens, dall’altro. Dimensioni che finiscono con l’apparire analoghe proprio nella loro infinita distanza e col rappresentare paradossalmente insieme, la radicale Entfremdung (straniamento/alienazione, n.d.r.) dell’“ultimo uomo”, il suo farsi radicalmente straniero sia al Politico che al Teologico, sia al linguaggio che muove dall’istanza di guidare la civitas homini (e che perciò non può fare a meno di una “escatologia”), sia a quello che comunica pubblicamente, nelle forme del tempo, la fede nel Regno (e che perciò deve risultare con-vincente, e non può di conseguenza non entrare in polemos con ogni potenza mondana vincitrice).
Quale profezia confonderà di nuovo le loro acque? Ve ne sarà una? A noi spetta forse soltanto il compito di fare chiarezza su come esse si siano storicamente divise per mantenere aperto il presente dell’interrogazione. Il pensiero critico si esercita contro ogni consolazione o nostalgia che pretendano di “sanare” oggi tale condizione. Contro i falsi profeti e chi finge impossibili poteri rimane necessario ricordare l’essenza dei termini in cui si gioca il nostro destino, farne davvero archeologia, indagare l’arché. Politica, teologia, utopia debbono essere custodite pure nella loro radicalità, e forse soltanto considerandole così potremo mantenere lo sguardo sgombro per cogliere l’evento del novum» (pp. 130-131).
Buona lettura.
Massimo Cacciari – Paolo Prodi, Occidente senza utopie, Il Mulino, Bologna 2016.