Stefano Allievi, professore di Sociologia e direttore del Master sull’Islam in Europa presso l’Università di Padova, in questo libro è molto interessante, prende il toro dell’immigrazione per le sue molteplici e metaforiche corna. Il volume, pubblicato a gennaio 2018 – credo in vista delle elezioni politiche dove il tema immigrazione ha avuto un peso significativo sull’esito elettorale – merita di essere ripreso in mano ora, che la polemica più aspra e dura si è un po’ calmata, anche se il problema dell’immigrazione non è affatto risolto, ma solo spostato nel tempo e nello spazio.
L’Italia aveva forse bisogno di una pausa di riflessione dopo le emozioni suscitate dai morti nel Mediterraneo, ma la questione degli immigrati è ancora aperta, non solo per l’Italia, ma per tutto il mondo. Il professor Allievi dichiara di voler prendere in considerazione tutte le obiezioni, e tutte le sfaccettature, che l’accoglienza di immigrati pone a un paese come l’Italia inserito nelle regole europee.
L’autore, da sociologo attento ai legami sociali, ritiene che uno dei problemi del dibattito sugli immigrati sia il fatto che esso è molto astratto: «La maggior parte delle persone che interviene a parlare dell’altro – chiunque esso sia – dell’altro in questione non ha alcuna esperienza personale, nemmeno superficiale (e, questo, sia da destra che da sinistra). Si ragiona per astrazioni, per simboli: ed è questo, incidentalmente, che rende plausibile anche la violenza del linguaggio e della pratica razzista, da qualunque parte provenga. L’altro fa problema perché viene reso astratto e oggettivato: non è più soggetto, non è più persona. Ciò rende legittimo l’uso della violenza su di lui: non è una persona concreta, che può soffrire, è un appartenente a categorie astratte, un negro, un kafir, un profugo un crociato, un rom…» (p. 135).
Questo capita spesso nella storia dell’umanità: il nemico in guerra, le persone vittime di atti terroristici, vittime di odio razziale… Se non sono persone come noi, allora possiamo trattarle come oggetti e quindi anche ucciderle, proprio perché non sono persone.
Questa è la prima questione da cui discendono tutte le altre; come affrontare il fatto delle migrazioni mondiali, che in passato ci ha visti protagonisti partenti e che oggi ci vede anche protagonisti riceventi.
L’autore sviscera gli aspetti principali del fenomeno migratorio: perché partono le persone, quali cause locali e internazionali li convincono che si sta meglio altrove, che vie percorrono per giungere dove desiderano, come li si può accogliere e integrare, come ridurre al minimo i disagi del viaggio, come rendere il fenomeno un gioco vincente per tutti, per gli immigrati e per i paesi sviluppati.
La proposta di Allievi è semplice, quasi banale: poiché oggi l’immigrazione economica non è legale in Europa – come lo era fino a poco tempo fa con il metodo dei flussi legali – e questo ha messo gli immigrati in mano alla criminalità più o meno organizzata che ne gestisce il reclutamento, il viaggio e anche – in parte – il lavoro nei paesi di destinazione, occorre rendere legale e controllato ciò che oggi è illegale e incontrollato.
Ogni proibizionismo ha gli stessi risvolti criminali, l’alcool negli USA, le sostanze stupefacenti, ecc., e la soluzione, dove è possibile, come nel caso dell’immigrazione, è quella di rendere legale e controllato ciò che adesso è illegale.
E’ una questione di sovranità nazionale: decido io chi può entrare nei miei confini in modo legale e decido come punire chi invece lo fa in modo illegale. C’è poi di fatto una zone grigia: migranti economici che per rendersi legali chiedono asilo politico, ma che in grande percentuale si vedono non accolta la loro domanda, perché insussistente, e quindi diventano clandestini.
Tutto questo ha ricadute e costi notevoli, da tutti i punti di vista: sociali, economici, energie umane sprecate, ecc.
Il libro è punteggiato costantemente di riferimenti a questa ipotesi che richiede una concertazione tra molteplici soggetti: stati sovrani, Comunità Europea, organizzazioni di volontariato, istituzioni locali, ecc. Non si tratta di fantasie di un professore, ma di realtà già sperimentate, anche in Italia, che potremmo tornare a praticare, anche dopo un periodo di stress sociale come quello vissuto; in particolare, dopo una crisi economica che ha messo a dura prova la coesione sociale aumentando le paure e le preoccupazioni del futuro di milioni di cittadini italiani, che hanno scatenato un odio a prescindere, in molti di noi. Infatti i recenti dati sul fenomeno migratorio in Italia, non giustificano la psicosi da invasione che si alimenta con campagne mediatiche eccessive.
Il professor Allievi documenta, sia con numeri che con riflessioni pacate, i vari aspetti della gestione dei flussi di migranti e invita il lettore e i decisori politici, a più mature e ponderate riflessioni per prendere decisioni politiche che non hanno la certezza della verità, ma la pratica del possibile qui ed ora. Un mestiere che i politici italiani sembrano aver perso per strada, specchio di un popolo in difficoltà che vorrebbe certezze, ma non può trovarle, se non rimboccandosi le maniche per uscirne tutti insieme e non ciascuno per sé, anche sull’accoglienza agli immigrati.
Stefano Allievi, Immigrazione. Cambiare tutto, Laterza, Bari-Roma 2018.
Citazioni
“5. Per concludere: la svolta necessaria, spiegata facile
Giunti al termine di questo percorso, almeno alcune cose saranno chiare.
La prima è che l’immigrazione c’è, ci sarà, è inevitabile che ci sia, nello scenario di mobilità che abbiamo descritto aumenterà ulteriormente, in ingresso e in uscita (il che non significa affatto che non possa essere normata e regolamentata – al contrario, abbiamo dato delle indicazioni su come farlo). Non è dunque un problema di “se”. È un problema di “quanto”. E di “come”.
Di “quanto”: perché, semplicemente, nessuna organizzazione sociale – non solo lo stato – può sopravvivere senza controllare e decidere i propri confini, anche numerici (le proprie dimensioni), oltre che quelli fisici e simbolici. Flussi troppo ampi, e soprattutto troppo veloci, possono creare disequilibri gravi, che producono costi elevati, in tutti i sensi – e quelli economici non sono i maggiori. Bisogna decidere dunque – con ragionevolezza, con attenzione ai dati, e anche con lo spazio necessario all’umanità e all’accoglienza dei più fragili e maltrattati (e resettando di tanto in tanto le proprie valutazioni e previsioni sulla base dell’esperienza fatta) – quanta immigrazione è non solo conveniente, ma sopportabile, senza che i costi superino i vantaggi, e i rischi di implosione non divengano troppo alti. Siamo ancora lontani da questo scenario: ma la riflessione va fatta con congruo anticipo, se vuole essere utile.
Di “come”: e di questo abbiamo già detto. Spingendo, ed è possibile, verso una immigrazione legale e regolamentata, cercando di diminuire drasticamente, ed è possibile, quella illegale e non regolamentata. Per minimizzare i costi sia per i migranti che per le società d’accoglienza.
I flussi migratori sono flussi, appunto. Possiamo paragonarli a un rubinetto aperto, o a un fiume. Di fronte a un rubinetto aperto, pretendere di fermarne il flusso a metà della caduta è illusorio: per un po’ ci si può anche riuscire, ma solo deviando l’acqua altrove, e alla lunga non è risolutivo, e da qualche parte è certo che si formerà una pozza non voluta. Fermare un fiume è anche possibile: con una barriera.
Per un po’ l’acqua si fermerà, e ristagnerà: ma prima o poi, aggirando l’ostacolo o forzandolo, si riaprirà un varco, e in maniera dirompente e distruttiva (o semplicemente costosa e incontrollata).
Fuor di metafora: non basterà aiutare la Libia, come prima la Turchia, e qualche altro paese. Va fatto, ma non basterà. Soprattutto se non lo si fa nella maniera giusta. Abbiamo già visto i rischi possibili: il rialzo del prezzo, i migranti usati come arma di ricatto.
Ma non si può neanche lasciare il rubinetto aperto e il fiume al suo corso, come pretenderebbero i fautori dell’imperativo etico dell’accoglienza di tutti, dei salvataggi in mare senza porsi il problema di fermare le partenze, e del riconoscimento del diritto alla mobilità senza condizioni, con un flusso in progressivo e disordinato aumento: salvando sì vite umane (almeno nell’ultimo tratto della traversata), ma trascurando a monte le implicazioni e i costi che comporta far arrivare quelle vite fino a lì (ne muoiono anche nei tratti precedenti perché attratte dall’esito finale del percorso, e abbiamo visto come, e per opera di chi), e dimenticando le conseguenze dell’allagamento a valle, in termini di sostenibilità sociale, culturale ed economica (oltre quelle politiche: che avrebbero come possibile esito la vittoria elettorale di chi contesta l’imperativo etico di cui sopra, e allora addio accoglienza in ogni caso, e nelle peggiori condizioni possibili).
Ma tra limitarsi a cercare di contenere il flusso, deviandolo dove si può, e lasciarlo scorrere aiutandone solo il deflusso, per quel che si riesce, esiste una terza opzione possibile. Se deviare il flusso a metà alla lunga non funziona, e ha dei costi etici che vanno discussi, e se lasciarlo scorrere senza controllo ha conseguenze che possono essere imprevedibili, e dei costi etici che vanno discussi, restano solo altre due cose da fare, e da fare insieme. Da un lato fare in modo che il flusso diminuisca, con un fortissimo investimento per creare sviluppo all’origine (senza affrontare le diseguaglianze globali, il flusso, semplicemente, non si arresterà mai, e anzi il rubinetto si aprirà sempre di più). E dall’altro regolamentarlo, in modo che l’immigrazione da irregolare diventi (come era in passato, peraltro) regolare, gestibile, oltre tutto utile a compensare flussi in uscita (demografici, per esempio, e i bisogni economici e occupazionali).
Contemperando controllo e umana pietas, sostenibilità (a monte e a valle) e interessi reciproci. Per restare nella metafora, un fiume, bloccato un alveo, se ne trova un altro, disordinatamente. Meglio allora, per tutti, un sistema di chiuse regolamentate che occasionali inondazioni. Allargando l’orizzonte: la frontiera mediterranea, come quella balcanica, è frontiera europea, non nazionale, e quindi europea deve esserne la gestione. Di fronte ad alcune centinaia di migliaia di persone, un bacino di deflusso più largo (di oltre 500 milioni di persone anziché di 60), che di acqua oltre tutto ha bisogno (l’Europa perde forza lavoro, lo si è già notato, per via demografica, al ritmo di 3 milioni di persone l’anno — molti meno di quanti ne sono arrivati in questi anni), fa tutto un altro effetto. E semmai si finirebbe per scoprire che occorre un afflusso regolare persino maggiore di quello che avviene attraverso gli attuali arrivi irregolari.
Infine, a valle, bisogna ripensare, ma seriamente, la società, l’organizzazione sociale, tenendo conto di una sempre maggiore pluralità interna, così come di forme di incontro e di meticciato sempre più ampie, ma anche imparando i metodi per gestire i conflitti correlati a questa situazione. In particolare quelli culturali, che sembrano i più complessi da affrontare.
In fondo, i conflitti politici abbiamo imparato a gestirli. Inventando un sistema democratico rappresentativo che ha saputo organizzare — non negare — i conflitti: dando loro uno spazio (dal parlamento al consiglio comunale), in una forma non distruttiva per il patto sociale (odio il mio nemico, ma invece di ucciderlo, voto contro di lui; amo il mio gruppo di appartenenza, e lotto con e per lui affinché possa affermarsi). Il conflitto c’è, e í suoi attori (non a caso: partiti, perché rappresentano delle parti della società, e mai il tutto) si contendono il governo, cercando il consenso necessario nella società. I conflitti del lavoro, anche, abbiamo imparato con il tempo a gestirli. E siamo passati da una lotta di classe spesso sanguinosa a forme di conflitto mediato, in forme non distruttive: le organizzazioni sindacali, Io sciopero, il contratto (apprezziamo la differenza osservando, in altri luoghi del mondo, il conflitto nelle sue forme ancora primitive, di durezza per noi inimmaginabile, e all’ultimo sangue).
La sensazione è che i conflitti culturali aspettino ancora il loro sistema elettivo-rappresentativo o il loro sistema di relazioni industriali. Non c’è un parlamento delle religioni da tutti accettato, o un sistema condiviso di relazioni sociali tra razze ed etnie. Ma è quello che dovremo cercare. Che stiamo già cercando: e, in parte, senza accorgercene, trovando. Anche attraverso i meccanismi di mixité. E, spesso, per tentativi ed errori, e sperimentazioni locali. Che è il caso, oggi, di portare a tema. In modo che diventino, in futuro, sistema” (pp. 138-142).
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