La città è un progetto che nasce dalla volontà di vivere insieme, un progetto radicato nella storia, nella cultura, un progetto che si vorrebbe aperto alla speranza. Ma chi fa il progetto? Chi sono quelli che vogliono e possono vivere insieme?
Non è facile rispondere a tali interrogativi. La città, crocevia di contraddizioni, è tante cose insieme. Certamente è fattore di modernità e di sviluppo, ambito di sedimentazione di risorse culturali e sociali che diventano brodo di coltura dell’innovazione e della sua diffusione. Ma è anche luogo di separatezze, di frammentazioni, talvolta di segregazioni. Ad ogni buon conto sempre più si presenterà come mosaico di popolazioni diverse, ognuna con una propria idea del vivere e del fruire la città.
Le forme urbane, in questi ultimi decenni, hanno registrato profondi cambiamenti. Il rapporto industria–territorio si è fatto sempre più problematico. Le fabbriche hanno abbandonato i loro luoghi storici, lasciando spazio alle “aree dismesse”, fonte sovente di grandi speculazioni immobiliari. E gli ex quartieri operai si caratterizzano per massicci ricambi di popolazione. I luoghi di incontro e socializzazione, sono messi in discussione sia dai nuovi centri commerciali sia dalla rivoluzione telematica. Le periferie sono tanto interne quanto esterne rispetto alla città. In quest’ottica i centri storici assolvono a ruoli contradditori: funzioni estetiche e di rappresentanza durante il giorno; ambiti di degrado e di violenza durante la notte.
Nel contempo constatiamo da un lato l’affievolimento di tutta una serie di riferimenti culturali e valoriali che si erano consolidati nel corso del tempo e dall’altro lato l’emergere prepotente di molte chiusure “identitarie”: identità corporative, localistiche e etnico-religiose. Le grandi città diventano “città divise”, fondate sulla separazione che alimenta la violenza e la povertà secondo una miscela che rischia di diventare esplosiva. Papa Francesco già in occasione dell’incontro mondiale dei movimenti popolari (Roma, 28 ottobre 2014) ha affermato: “Viviamo in città che costruiscono torri, centri commerciali, fanno affari immobiliari ma abbandonano una parte di sé ai margini, nelle periferie: Quanto fa male sentire che gli insediamenti poveri sono emarginati o, peggio ancora, che li si vuole sradicare! Sono crudeli le immagini degli sgomberi forzati, delle gru che demoliscono baracche, immagini tanto simili a quelle della guerra”.
Welfare e governance delle grandi città
Siamo in presenza di un panorama complesso, caratterizzato da grandi contraddizioni. La città è diventata luogo emblematico di lettura delle molte crisi del nostro tempo. Può anche essere luogo in cui sperimentare segni di cambiamento, fondativi di un nuovo umanesimo, nel cui ambito amicizia, condivisione, partecipazione non sono parole vuote. Qui sta la sfida della governance delle grandi città, dei grandi sistemi metropolitani: di un rinnovato welfare urbano.
Sono in gioco una governance e un welfare che, mai come oggi, devono essere efficienti (le risorse disponibili non sono molte), giusti (nelle nostre città ci sono troppi squilibri), plurali (capaci di fare i conti con la molteplicità delle situazioni), condivisi e partecipati, in grado di valorizzare le energie, le capacità esprimibili dalla società civile, rispetto alla quale le istituzioni locali non hanno una posizione sovraordinata, bensì di servizio, di promozione, di regolazione. C’è una domanda di servizi sociali, di vita buona che deve essere promossa, sostenuta, trasformata da virtuale in effettiva. Nel contempo occorre assicurare la pluralità dei soggetti di offerta dei servizi evitando la formazione di posizioni di rendita e garantendo una reale libertà di scelta da parte dei cittadini.
Il modello semplificante del decisionismo istituzionale si rivela sempre più inadeguato di fronte alla complessità e all’interdipendenza degli interessi in gioco. Né d’altro canto il semplice rapporto di agenzia tra i cittadini e i loro rappresentanti – amministratori appare risolutivo. Vi possono essere asimmetrie informative, comportamenti opportunistici. E’ indispensabile allora un protagonismo dal basso che sarà tanto più efficace quanto più i cittadini sapranno organizzarsi e incorporare nelle loro preferenze elementi di equità e solidarietà. Il concetto di democrazia si fa di conseguenza più ricco ed articolato.
Un welfare del genere non nasce a tavolino. Si deve partire innanzitutto da una lettura non intellettualistica dei bisogni. Nelle odierne società urbane le caratteristiche del bisogno non configurano più ambiti omogenei e uniformi ai quali applicare politiche standardizzate. Si impone invece una nuova attenzione alle caratteristiche del bisogno: per interventi formativi, per sostegni relazionali, per integrazioni di reddito, per servizi di cura, ecc.
In secondo luogo, dopo aver configurato le caratteristiche dei bisogni, occorre passare alla costruzione di percorsi fondati su interventi mirati, finalizzati a promuovere processi di autonomizzazione personale, famigliare, comunitaria; di costruzione di libertà. Va da sé che nell’ottica del percorso non basta preoccuparsi semplicemente dei punti di partenza, tralasciando i punti di arrivo. All’uguaglianza delle opportunità va affiancata l’equità dei risultati. Occorre pertanto passare da un welfare che assiste a un welfare che abilita; dal risarcimento delle carenze alla promozione delle facoltà; dall’accettazione dello status quo alla presa di parola per cambiare.
La mappa dei bisogni della gente
Che configurazione assume la mappa dei bisogni nelle principali città italiane? Fra le determinanti dirette e indirette del malessere possiamo fare riferimento alle seguenti situazioni:
– Invecchiamento della popolazione. La questione assume una triplice valenza. Esiste la condizione dell’anziano e in particolare dell’anziano solo. Esiste la condizione del bambino e del ragazzo in una società anziana. Esiste altresì la condizione della donna, ad un tempo moglie, madre, figlia di genitori bisognosi di assistenza.
– Progressiva destabilizzazione di categorie sociali sino a poco tempo fa ritenute senza problemi. L’incertezza e la precarietà lavorative; la disoccupazione e l’inoccupazione; la crisi di tante piccole iniziative di lavoro autonomo commerciale e artigianale; la perdita di potere d’acquisto di salari e di pensioni determinano l’aumento dell’area delle povertà assolute e relative, materiali e anche immateriali. A questo riguardo si può osservare che, nelle grandi città, la povertà manifesta talune caratteristiche comuni. E’ multidimensionale nel senso che debolezza economica, mancanza di istruzione, cattiva situazione sanitaria, alloggi fatiscenti, famiglie disgregate, diffusione della droga rappresentano altrettanti elementi di un mix sovente inestricabile. E’ cumulativa ed ereditaria in quanto i figli degli emarginati hanno oggi forti probabilità di rimanere tali. Ha dimensioni etnico-culturali ed è concentrata in zone specifiche della città – nel centro storico o in periferia – destinate a diventare “off limits”.
– Sfilacciamento e atomizzazione del tessuto sociale. Aumentano le disuguaglianze e le discriminazioni. Sono colpiti i più deboli, i meno dotati, i meno rappresentati, i meno capaci di iniziativa personale. Tra non lavoro, esclusione e talvolta devianza i confini si fanno sempre più labili. L’esclusione è oggi il grande dramma e la grande paura.
– L’immigrazione che amplifica i problemi e le contraddizioni. L’obiettivo era quello di poter avere della “braccia”, sono invece arrivate delle “persone”. Al semplice e comodo “rapporto di produzione” o di “strumentalità” è giocoforza sostituire il “rapporto comunitario” che va costruito a partire da soggetti liberi di scegliere, di assumere la responsabilità del proprio destino. Ma la libertà delle persone non può esplicarsi soltanto nell’autodeterminazione. Questa deve comportare anche l’autorealizzazione che richiede un rapporto costruttivo con l’altro. E autodeterminazione e autorealizzazione presuppongono l’esistenza di spazi pubblici in cui soggetti portatori di storie e identità culturali diverse possono esprimerle e confrontarle pacificamente e dialogicamente.
Città e bene comune. Il ruolo dei governi locali
La governance della città va profondamente ripensata nei suoi fondamenti e nelle sue strumentazioni. Per le amministrazioni comunali si prospetta l’esigenza di una rivoluzione culturale nel senso di una governance che deve essere:
– garante dei diritti di tutti i cittadini. Il tema dei livelli essenziali delle prestazioni, dei profili di qualità che possono essere pretesi da tutti secondo equità, richiede alcuni passaggi obbligati. La garanzia dei diritti non può essere semplicemente enunciata, ma postula un organico e continuativo processo di misurazione e valutazione sulla base di parametri condivisi;
– aperta alla partecipazione attiva dei cittadini, dei gruppi, delle associazioni che rappresentano dei giacimenti di risorse progettuali e creative, purchè si creino le condizioni per la loro esplicazione;
– capace di lavorare in rete, sapendo anche utilizzare in maniera intelligente le potenzialità offerte dalle nuove tecnologie infotelematiche;
– promotrice di sviluppo economico e sociale sostenibile nell’ambito di una “buona città” in cui vivere;
– responsabile. La responsabilità consiste nel rispondere di qualcosa a qualcuno, sulla base di determinati presupposti, in maniera organizzata e strutturata: ciò impatta sui sistemi di rendicontazione, preventiva e consuntiva (accountability), posti in essere dall’amministrazione comunale. Al bilancio tradizionale (opportunamente riclassificato) occorre affiancare il bilancio sociale. La conoscenza dei risultati (output) dell’azione politica e amministrativa del comune deve essere integrata con la conoscenza delle conseguenze (outcome).
Le spese correnti e quelle di investimento quanta felicità riescono a generare? Quanta sofferenza contribuiscono a ridurre in relazione alle diverse categorie di stakeholder ritenute rilevanti? Il dialogo, la partecipazione, il governo delle relazioni interne ed esterne concorrono a raccordare amministrazione e stakeholder. E’ in gioco la costruzione di una “catena di senso” che lega tra loro visione politico-valoriale del comune, obiettivi e strategie, risorse, interventi, risultati e conseguenze. La rendicontazione sociale dà forma e sostanza a tutto ciò. Non può limitarsi a una mera operazione di immagine.
Le città hanno bisogno di un tessuto di relazioni sociali autentiche capaci da un lato di resistere alla forza prevaricante dei grandi poteri che comprimono le esperienze individuali e dall’altro di superare situazioni di frammentazione e chiusura particolaristica. Bene comune e società civile, tra loro strettamente connessi, possono rendere la città luogo di solidarietà concreta nei rapporti comunitari, condizione per lo sviluppo delle identità personali e collettive, incubatore di creatività e imprenditorialità, ambito di regolazione sociale e garanzia di libertà.
La città laboratorio
E’ in questo senso che possiamo parlare di città laboratorio, luogo in cui leggere segni di cambiamento più ricchi in umanità. Si tratta di:
– ricucire, ricomporre relazioni ovvero di non rinchiudersi nel privato ma di aprirsi al sociale, coniugando libertà e solidarietà, riorganizzando i tempi e gli spazi della città, assumendo la persona e la famiglia come punto focale;
– sperimentare nuove forme di convivenza sociale ed economica a partire dai pezzi di progetto elaborati dalle diverse soggettività e aggregazioni sociali, delegando loro risorse e responsabilità (convenzioni, accordi di programma a livello di quartiere,ecc);
– vivere e praticare l’interculturalità in un’ottica di dialogo. La cultura della città è anche la cultura delle differenze. Le diverse società, i diversi mondi ed esperienze presenti nella città possono accogliersi reciprocamente. Questa non necessariamente deve essere una macchina tritatutto (melting pot) e neppure una macchina che genera separatezze e segregazione.
Discendono da tutto ciò alcune piste di riflessione e di impegno. Occorre ricercare possibili sinergie tra innovazione economica, sociale e civile capendo quali sono le carte giocabili dalle città in vista del bene comune. Occorre reimpostare su nuove basi, condivise e partecipate, la progettazione urbanistica e sociale valorizzando le risorse di creatività presenti nei giovani, nelle donne e negli immigrati e anche l’esperienza degli anziani. Occorre vedere nei servizi l’incontro tra pubblico e privato nonché lo strumento di lotta contro l’esclusione e la povertà.
Grandi trasformazioni attendono le città negli anni a venire. Si tratta di vedere se tutto ciò deve necessariamente avvenire in termini di “distruzione creativa” con la conseguente diffusione di omologhi valori di competizione, di merito individualistico, oppure se sia perseguibile un’ipotesi di “solidarietà generativa” con l’inserimento di processi di “controllo comunitario”, con lo sviluppo di valori di comunicazione, dialogo e cooperazione.
La sfida che abbiamo di fronte è quella di una cittadinanza senza confini. Nella dialettica tra un globale omologante e un locale che si chiude in se stesso occorre riscoprire l’universale che non presuppone una concezione statica dell’uomo. Nelle nostre città può dunque maturare un codice genetico-sociale centrato sulla correlazione tra la dignità indivisibile della persona e il valore del mondo nel quale ci troviamo. Potremmo in definitiva parlare di codice della prossimità globale come fondamento del fare e vivere la città.