Ogni forma di vita si sviluppa facendosi spazio e intrattenendo una fitta ed articolata varietà di interazioni con l’ambiente che lo circonda. Un’interazione non priva di contraddizioni che tuttavia rimangono nell’alveo delle relazioni vitali e coessenziali al processo di sviluppo. Un dinamismo che prevede, non escludendole mai, una pluralità di forme che tutte convergono ad un entropico gradiente di possibilità evolutive.
Persino le crisi, rotture strutturali ossia di forme consolidate e di “equilibri”, sono occasioni di sviluppo, di “scelta” di alcuni percorsi piuttosto che altri (l’etimologia della parola crisi – come è noto – viene dal greco “κρινω”: scelgo, separo… pertanto un’azione di discernimento), opportunità evolutive che, in qualche modo, determinano altrettante possibilità di sviluppo.
Da sempre gli economisti hanno osservato il sistema economico al pari di un sistema vivente, concettualizzando per l’economia le stesse fasi di evoluzione degli esseri umani, si pensi al programma fisiocratico che, in contrasto con la pretesa colbertista di “controllare” lo sviluppo totalmente in chiave industrialista, assegnava alla coltivazione agricola ed alla cura dei territori rurali il ruolo di vettore dello sviluppo di una paese moderno.
Tuttavia gli studiosi e gli operatori economici hanno identificato lo sviluppo economico moderno (l’aggettivo non è pleonastico) con l’accrescimento del volume di attività economiche e dal conseguente aumento della disponibilità di beni e servizi per la popolazione, almeno a partire dalla riflessione del premio Nobel Simon Kuznet. È altrettanto noto come lo stesso inventore del Prodotto Interno Lordo avesse ben chiari i suoi limiti ed allertasse tutti da uno scorretto utilizzo di tale misura, auspicando una maggiore considerazione della valutazione della dimensione qualitativa dello sviluppo per superare una visione riduttiva andando persino oltre lo stesso PIL.
Il dibattito in tal senso degli studiosi, particolarmente economisti e statistici, è stato in seguito generoso e fecondo di misure e di schemi alternativi: dallo Human Development Index proposto dall’economista pakistano Mahbub ul Haq in collaborazione con il premio Nobel Amartya Sen sino ai 17 indicatori della sostenibilità del Millennio, fondati sui lavori dell’OECD e sulle dodici raccomandazioni della Commission sur la Mesure de la Performance Économique et du Progrès Social promossa dall’allora presidente francese Nicolas Sarkozy.
In tutte le diverse proposte, così come nelle ricerche rigorose che le sostengono, emergono due sfide: la prima deriva dalla necessità di una maggiore rappresentazione della natura qualitativa dello sviluppo, la seconda riguarda l’opportunità di documentarne e valutarne la sua struttura multidimensionale.
In particolare la prima sfida è messa molto bene a fuoco da Fritjof Capra ed Hazel Henderson, lui un fisico ed epistemologo austriaco e lei un’economista britannica studiosa di etica, che suggeriscono come orizzonte per un nuovo mutamento di paradigma nella misura dello sviluppo un sintagma che suona come una curiosa litote: la crescita qualitativa.
Essi partono dall’idea che “l’evoluzione non è più concepita come una lotta competitiva per l’esistenza, ma semmai come una coreografia collettiva in cui le forze trainanti sono la creatività e la costante introduzione di innovazione” (p. 19), pertanto anche i sistemi economici evolvono secondo questo principio assumendo una crescita qualitativa che “prevede un equilibri dinamico fra crescita, declino e riciclo e se include inoltre uno sviluppo in termini di apprendimento e maturazione” (p. 27). Pur esprimendo una certa perplessità verso il rischio di collassamento semantico in senso economicista della Triple Bottom Line, essi identificano nella sostenibilità l’obiettivo da perseguire sia nelle agende pubbliche a vario livello che negli stili di vita “agenti” degli individui ed i comportamenti collettivi delle organizzazioni. Da ciò nasce il programma di ricerca che collega la dimensione della sostenibilità a quella della generatività di Mauro Magatti e Chiara Giaccardi, che declina lo sviluppo come processo di apprendimento aperto e dinamico, non solo come prospettiva educativa personale ma anche come orizzonte politico e strategico per organizzazioni ed istituzioni.
La prospettiva generativa coniugata in senso economico implica un recupero della natura originaria di tale “ordine economico” come custodia e cura di ciò è connesso all’abitare, al sostenere la “durabilità” della vita quotidiana migliorandola attraverso forme (convenzionali) e strumenti (standardizzati) ossia abitudini o, per meglio dire, “stili di vita”. Occorrono dunque “stili di vita generativi”, capaci cioè di ripensare le azioni economiche secondo un orizzonte più vasto ed una maggiore consapevolezza delle implicazioni trasformative che tali azioni comportano, soprattutto in riferimento allo “spazio” in cui esse si localizzano. Uno sviluppo autenticamente generativo non può, pertanto, che originare da una responsabilità maturata consapevolmente verso proprio ambiente di vita e praticata concretamente in una dimensione particolare e locale.
Il ruolo del territorio
Il territorio è lo spazio trasformato dalle azioni umane: è, ad un tempo, l’insieme delle sue dotazioni (dei giacimenti) naturali, delle tradizioni culturali e dei dinamismi e processi che in essi continuamente “condensano” le relazioni tra persone in istituzioni, vale a dire organizzazioni e sistemi di regolazione sociale.
Uno spazio relazionale generato continuamente e dinamicamente dai comportamenti individuali e collettivi, ossia trasformato dagli obiettivi (non solo le funzioni e le preferenze tanto care agli economisti) che gli uomini perseguono per realizzare il proprio ben-essere. Le risorse non sono dotazioni, ossia il processo di attivazione dei beni chiede una sorta di riconoscimento ed un ruolo “attivo” da partire del territorio, non più “oggetto” ma “soggetto” del proprio sviluppo, le risorse vanno in qualche maniera “ri-conosciute” o come direbbe Franco Cassano “ri-guardate”.
Riconoscere le risorse vuol dire pertanto avere uno sguardo attento a non trascurare nulla, uno sguardo ricco e capace di andare in profondità cogliendo la complessità di ogni entità territoriale, come avrebbe detto l’immenso Albert O. Hirschmann “nemmeno quelle mal-utilizzate, disperse o nascoste”. Persino la stessa vulnerabilità o la condizione di marginalità derivante da una localizzazione “periferica”, può divenire una nuova possibilità di sviluppo, così come la capacità di reagire alla crisi, la cosiddetta resilienza territoriale. Ancora una volta emergono i tratti latenti di un’idea di sviluppo come dinamismo evolutivo, misurato non tanto dal raggiungimento di livelli standardizzati, uguali per tutti, ma piuttosto come una tensione, intesa come attitudine delle capacità individuali e collettive a combinarsi secondo una pluralità multiforme.
In tale senso è possibile affermare come lo sviluppo locale sia “un processo di cooperazione e cambiamento” che ha come finalità l’accumulazione di capitale civico attraverso la produzione di beni collettivi locali, cioè il riconoscimento condiviso e comune delle risorse da pare di un soggetto fondamentale per lo sviluppo locale: la comunità locale.
Individuo e comunità tornano ad essere i poli all’interno dei quali si articola una dialettica tipica delle scienze sociali: un’espressione di tale dibattito è possibile ritrovarla negli studi più recenti relativi al ruolo del capitale civico.
Per molti economisti il capitale civico esprime soprattutto una pre-condizione per la crescita economica e, conseguentemente, per lo sviluppo di un sistema territoriale, tale fattore immateriale si scompone ulteriormente in un gradiente di elementi rappresentativi della fiducia. Essa è costitutiva di quel capitale sociale che facilita la creazione di “reti” e di legami aperti ed “inclusivi”, e influisce sul capitale umano, relativo all’istruzione e alla formazione delle singole persone.
La correlazione, tuttavia, delle dotazioni di tali capitali (civico, sociale, umano) ai rendimenti economici rilevati dagli indicatori di produttività evidenzia significative e forti relazioni di proporzionalità, da Banfield e Putnam in poi utilizzate per spiegare il “ritardo di sviluppo” di taluni sistemi territoriali.
Se da un lato tali variabili immateriali, rappresentative del grado di civicness di un territorio rappresentano una precondizione di sviluppo, dall’altro non possiamo dire che modelli di crescita, implementati da una certa varietà di politiche di sviluppo possono aver contribuito allo “sfilacciamento” delle relazioni comunitarie (nelle sue varie forme relazionali e istituzionali). Diventa, pertanto, fondamentale recuperare un paradigma differente ed un approccio alle politiche di sviluppo territoriale che sappia coniugare insieme obiettivi economici e sociali, valorizzando al meglio le risorse produttive (materiali e immateriali) e non produttive, perseguendo una finalità più ricca e densa di valore territoriale. Un approccio che collochiamo nell’ambito del filo dell’economia civile della tradizione napoletana che costituisce la radice culturale e lo schema teorico del contributo del presente volume.
Nuovi modelli per nuove politiche
Abbiamo sperimentato in questi ultimi decenni una particolare fase della globalizzazione che ha enfatizzato la competizione, anche a livello territoriale, alla ricerca di vantaggi economici dei singoli (individui o organizzazioni) derivanti dall’allargamento della libertà di mercato e della moltiplicazione delle opportunità di investimento in una logia di massimizzazione nel breve periodo, tipicamente finanziaria.
L’impatto di tale processo nei territori si è manifestato sovente attraverso un’elevata crescita della mobilità delle persone (migrazioni dal Sud del mondo verso il Nord, spopolamento e desertificazione dei piccoli centri dell’interno, agglomerazioni urbane e conurbazione in megalopoli sempre più vaste, aumento della segregazione nelle grandi città continentali) così come da una progressiva riduzione delle risorse finanziarie pubbliche con conseguente necessità di razionalizzare e ristrutturare gli investimenti pubblici in una logica di rigore richiesta a diverso livello dalle più autorevoli istituzioni finanziarie e monetarie.
Rimettere al centro dell’agenda politica l’importanza del locale significa in primo luogo ripensare ovvero affermare l’importanza di una visione pluralistica e articolata dei modelli e delle politiche di sviluppo, capace di scommettere nuovamente sulle comunità e quindi sulle relazioni che sono a fondamento dei processi economici e sociali.
Abbiamo però bisogno di uno sguardo differente, innovativo, coraggioso. Occorre osare un cambiamento che metta in gioco le responsabilità di ciascuno in nome di una visione più ricca e densa di sviluppo, che certamente parte dal basso e s’innesca attraverso la rete e la cooperazione, ma che sa evolvere in maniera equilibrata coniugando al futuro le specificità e le peculiarità che sono incorporate nelle singole caratteristiche locali e territoriali. La dimensione locale spesso sperimenta la vulnerabilità e la marginalità, ma tali condizioni possono essere ripensate nella ricerca di modelli organizzativi, amministrativi e imprenditoriali che rimettono al centro la persona valorizzandone pienamente l’umanità: si pensi a cosa può implicare in termini di welfare locale comunitario un’intelligente e creativa capacità di coinvolgimento e di promozione delle risorse delle persone più vulnerabili e svantaggiate.
Ciò comporta il riconoscere come risorse non solo le dotazioni fisiche o materiali, ma soprattutto quelle creative e intellettuali: tale leva è peraltro al cuore della strategia di “specializzazione intelligente” lanciata a livello comunitario.
I territori sono invitati a combinare in modo sapiente sia politiche che li sostengano a migliorare i propri “vantaggi assoluti” (ossia le proprie specializzazioni culturali e produttive) che consentiranno loro di attirare maggiormente risorse ed investimenti in un una logica virtuosa di competizione sia politiche di sussidiarietà fondate sulla rilocalizzazione alcuni processi nella prospettiva virtuosa della “circolarità interna” e della sostenibilità. Competizione e cooperazione sono due strategie che hanno senso solo nell’orizzonte del bene comune e della crescita qualitativa.
Nella dimensione locale si riduce anche lo spazio di distanza tra pubblico e privato, aprendo la strada ad una visione più aperta all’idea di condivisione e di gestione comune: i beni comuni che derivano dall’eccedenza del patrimonio statale o da quelli recuperati in seguito a confisca alle organizzazioni criminali mafiose stanno mobilitando energie e risorse nella creazione di forme gestionali innovative.
La dimensione locale, inoltre, favorisce i percorsi partecipativi e permette l’attivazione di forme di cittadinanza attiva di democrazia deliberativa sia attraverso una maggiore possibilità di scambio delle informazioni e di riduzione delle asimmetrie informative, sia attraverso la generazione di beni relazionali basati sulla reciprocità e la fiducia.
Attraverso tali processi è possibile rigenerare la comunità locale attribuendole quel ruolo attivo che costituisce un elemento indispensabile per progettare dal basso nuove opportunità di creazione di valore e istituzioni inclusive che promuovano lo sviluppo e il benessere delle persone.