Il sistema penitenziario italiano costa ogni anno ai contribuenti quasi 3 miliardi di euro. La cifra è altissima e insieme paradossale, visto lo stato disastroso di quasi tutte le nostre prigioni. Questa immensa ricchezza pubblica viene letteralmente buttata via, attraverso una finestra chiusa a grate.
Il dato diventa doppiamente paradossale, quasi surreale, se si analizzano i "tassi di recidiva", cioè la propensione a delinquere di chi è già passato almeno una volta dietro le sbarre: infatti questo sistema penitenziario così oneroso genera uno dei tassi di recidiva tra i più alti d’Europa (dal 15 al 20 per cento di media in Europa, 67 per cento tra gli italiani), mentre al contrario la recidiva di coloro che non scontano l’intera pena in carcere, ma vengono in parte ammessi a una misura alternativa scende drasticamente al 19%. Insomma, il carcere in Italia è davvero l’eccellente scuola di delinquenza di cui si è sempre parlato. Se quasi il 70% di chi sconta tutta la pena in carcere torna a commettere reati, vuol dire che il carcere, così come è oggi, ci rende solo meno sicuri.
Oltre alle misure alternative, un altro aspetto fondamentale da valutare correttamente è la questione del lavoro dei condannati. Che purtroppo in Italia è ancora un’araba fenice. La percentuale di recidivi che non hanno mai lavorato in carcere è superiore di tre volte rispetto a coloro che hanno svolto mansioni lavorative all’esterno o all’interno dei penitenziari.
Il problema è che in Italia l’82,6% delle condanne vengono scontate in carcere, in pochi metri quadrati di cemento armato e quasi sempre senza che sia prevista alcuna attività lavorativa. L’ozio, se possibile, abbrutisce ancor più i detenuti. In altre nazioni europee (es. Francia e Gran Bretagna) avviene quasi l’esatto contrario, con due terzi dei condannati impegnati in lavori di pubblica utilità, per di più condotti quasi sempre all’esterno delle prigioni. La Corte europea per i diritti umani ha incluso il nostro Paese tra quelli più arretrati e degradati.
L’attività legislativa in materia di giustizia si muove sempre tra due poli: riforme di struttura e misure urgenti. Quasi tutti gli interventi sono costantemente sospesi tra l’ambizione di misure strutturali, destinate a durare nel tempo, e il realismo di norme approvate per fronteggiare l’emergenza del momento. Il cantiere giustizia in Parlamento è sempre aperto. Ma il cammino delle riforme è tutt’altro che spedito.
La sicurezza si costruisce investendo sui percorsi di responsabilizzazione, non sulle città blindate e le carceri abbandonate. Fino ad oggi si è preferito parlare di sicurezza finanziando l’acquisto di telecamere invece del reinserimento delle persone detenute. (…)
Impiegare adeguate risorse finanziarie in misure alternative al carcere, in "sanzioni e misure di comunità" tecnicamente è un vero investimento, destinato cioè a spendere oggi per produrre domani dividendi sociali di maggiore sicurezza per i cittadini attraverso la minor recidiva dei detenuti.
Una diversa concezione del carcere e della pena è qualcosa che conviene ai cittadini. In Italia esistono organizzazioni che lavorano h24 per restituire un senso a vite spezzate, organizzazioni con una missione ai limiti dell’impossibile: cambiare la cultura della pena e sensibilizzare l’opinione pubblica. Occorre, infatti, introdurre strumenti e programmi di valorizzazione umana per offrire al condannato condizioni di recupero, conseguendo così l’obiettivo di proteggere la società e promuovere la giustizia.
Per raggiungere questi obiettivi l’Associazione Prison Fellowship Italia Onlus propone da anni il passaggio da un sistema di Giustizia distributiva alla Giustizia riparativa, come modello principale cui fare ricorso e solo secondario e accessorio il “giudizio ordinario”, cioè il passaggio ad un modello di giustizia inteso non come violazione della norma giuridica, ma come rottura delle relazioni.
Occorre cambiare la prospettiva da cui guardiamo le cose, accedere ad una prospettiva di riumanizzazione che non significa buonismo, al fine di vedere al centro la persona umana più che una visione astratta di ordine politico – giuridico. Non significa edulcorare il “sistema Giustizia”, quanto onorare l’esperienza e la dimensione umana: per l’uomo, non sull’uomo. Una giustizia che potremmo definire "creativa", legata al riconoscimento dell’Altro. Responsabilizzare l’offensore significa fargli prendere coscienza del danno cagionato alla vittima e fargliene prendere carico. Riparazione e responsabilizzazione non significa “perdono” né promozione dell’impunità, ma aiutare a prendere sul serio il danno nelle sue varie dimensioni e offrire spazi e occasioni per porvi rimedio. Certo, può darsi che questo non sia sempre possibile, ma finché non si offre questa occasione, questa porta rimane chiusa.
Per essere efficace e mantenere le sue promesse di nuova giustizia possibile, la giustizia riparativa deve superare i diritti soggettivi e offrire garanzia: alla vittima in primo luogo, ma anche al reo che non deve essere costretto a piegarsi a valori sociali scontati, benché fondati. Deve operare, ancora, in vista della rassicurazione sociale, offrendo adeguate risposte a quelle esigenze satisfattive e stabilizzatrici della società che non possono essere ignorate, non rinunciando a placare l’allarme sociale che il reato ha cagionato.
Il reo viene comunemente considerato fuori dalla comunità; la società non è disposta a riammettere Caino. Se il processo riparatorio non coinvolge sia Abele che la comunità, difficilmente sarà efficace. Occorre ricomporre e riconciliare le soggettività violate, riparare il tessuto sociale e il rapporto intersoggettivo lacerati da un evento inaccettabile quale quello costituito da una lesione violenta di un bene giuridico.
Giustizia riparativa e sistema penitenziario: il “Progetto Sicomoro”
Il Progetto Sicomoro introduce alcuni principi della Restorative Justice per consentire una riduzione dell’affollamento carcerario e della recidiva e la creazione di migliori condizioni per l’applicazione di misure alternative, che sono l’unica strada concreta percorribile a breve.
Il nome del progetto nasce dall’episodio riportato nel Vangelo di Luca 19,1-10, quando Zaccheo, un esattore delle imposte disonesto, cerca di vedere Gesù, ma non ci riesce a causa della folla; così si arrampica su un albero di Sicomoro per avere una visuale migliore. Gesù si accorge di lui e si ferma a parlargli. Ed ecco che avviene qualcosa di inaspettato: Zaccheo, pentito dei suoi furti e abusi ai danni dei concittadini, decide di restituire il mal tolto alle sue vittime attuando la giustizia riparativa.
Il Progetto Sicomoro s’inserisce nell’alveo dei principi della Giustizia Riparativa essendo caratterizzato da:
1) il confronto tra vittime di reati e detenuti condannati con sentenza passata in giudicato;
2) la responsabilizzazione del reo;
3) lo stimolo di condotte riparatorie;
4) la riabilitazione.
Il progetto Sicomoro ha come obiettivo primario la riabilitazione del condannato attraverso un processo che prevede il confronto comunitario con vittime della stessa tipologia di reati. Tali vittime, a loro volta, attraverso la loro partecipazione, riescono a superare le ferite emotive e psicologiche causate dal crimine patito. Spesso la stessa possibilità di condividere tali traumi, il sentirsi prese in considerazione per la sofferenza subita, la possibilità di ottenere comprensione e rispetto, fanno superare alle vittime la propria condizione. In moltissimi casi di messa in prova di imputati minorenni, le vittime del reato privilegiano, rispetto al risarcimento economico, il riconoscimento dei propri errori da parte del reo, con eventuali lettere formali di scuse.
Dall’esperienza, emerge come siano più efficaci i progetti di giustizia riparativa che prevedono una condivisione tra più vittime e criminali, rispetto a quelli in cui il confronto si svolge unicamente tra le parti strettamente coinvolte da uno specifico fatto criminale. Da questo punto di vista il Progetto Sicomoro assicura un impatto ottimale sull’esito positivo del programma, poiché basato fondamentalmente sulla condivisione comunitaria.
Il Progetto può sfociare anche nella riconciliazione tra le vittime del reato ed il suo autore, anche se tale esito, dipendente dalla scelta volontaria delle vittime, non ne costituisce un elemento necessario. Lo sviluppo conciliativo, a seguito di eventuale mediazione diretta, avrà un esito positivo assicurato dalla preparazione del reo avvenuta attraverso il completamento del progetto stesso, di cui costituisce una conseguenza naturale ed ulteriore. Infatti, il reo comunque compirà condotte riparatorie, anche solo simboliche, nei confronti delle proprie vittime, che potranno liberamente scegliere se incontrare il reo.
E’ importantissimo per l’autore di un reato sapere che il proprio gesto, se non storicamente (perché non si può tornare indietro), in qualche modo è riparabile, altrimenti la pena diventa veramente solo un infliggere una sofferenza senza orizzonti. Sapere di poter riparare è fondamentale; ed è fondamentale sia per il reo che per la vittima. (…)
Il Progetto Sicomoro si pone nel solco normativo tracciato dall’art.27 della Costituzione Italiana, nel quale si afferma la necessità che la pena tenda alla rieducazione del condannato.
Per le peculiarità che lo contraddistinguono, il Progetto è in grado di calarsi in maniera del tutto armonica nel sistema rieducativo istituzionale, poiché non si sovrappone al ruolo degli operatori presenti presso gli istituti, ma costituisce uno strumento di agevolazione del loro lavoro da utilizzare in piena armonia con i volontari che ne sono protagonisti. (…)
L’importante è non utilizzare questi strumenti nuovi con la mentalità antica, perché se abbiamo sempre in mente di rispondere al reato con la pena, "al male con il male", vi è il pericolo di usare la mediazione e la riparazione come delle pene, tradendone la natura di una giustizia che – come ha affermato più volte il Consiglio d’Europa – aspira a diventare "più costruttiva e meno afflittiva” (…).
Un nuovo metodo di trattamento penitenziario: le APAC
Non ci si può fermare soltanto a modelli di recupero, ma occorre anche progettare modalità alternative di espiazione della pena, sul modello delle APAC (acronimo di Associazione Per Assistenza ai Carcerati), strutture private fondate sui principi della sussidiarietà e della solidarietà, che operano sotto la vigilanza della magistratura di sorveglianza, già sperimentate con successo in particolare in Brasile e Cile.
APAC è prima di tutto un metodo di trattamento penitenziario pensato per i detenuti “definitivi”, quelli che sono già stati condannati e cominciano a scontare una pena che li priva della libertà. Il metodo ingloba i tre regimi, “chiuso, semi-aperto e aperto”. (…)
Sono gli stessi ‘recuperandi’ – questo il termine che sostituisce la parola ‘detenuti’ nel gergo APAC – che hanno in mano le chiavi delle celle e diventano responsabili della sicurezza e delle fughe, in un’ottica di autogestione che ha migliorato sensibilmente le condizioni di vita nei centri. Punto fondamentale è il riconoscimento da parte della persona che ha commesso il reato di aver sbagliato e di voler ricominciare. È il giudice che ha il compito di identificare i potenziali ‘recuperandi’ e di seguirli durante il percorso di compimento della pena e di recupero.
Le APAC sono penitenziari speciali dove tutto si basa sull’autodisciplina, sulla fiducia e sul rispetto dei detenuti. Chi sconta la pena ha in mano anche la chiave del penitenziario, ma sa che questo regime è valido solo fino a quando rispetta il patto siglato con l’autorità. In caso contrario, l’unica possibilità è il ritorno al regime convenzionale e quindi all’inferno delle carceri comuni. Non ci sono guardie, né armi, né manganelli, né divise carcerarie, né filo spinato o cocci di bottiglia sopra i muri, e il portone d’ingresso lo apre un carcerato, uno che deve scontare la sua pena.
Per essere ammessi al programma i detenuti devono accettare le regole del progetto e una disciplina particolari; la precedenza è riconosciuta a chi ha maturato in carcere un’anzianità maggiore.
I nuovi arrivati confessano spesso di aver chiesto di partecipare al programma con l’obiettivo di evadere, ma quando si rendono conto che sono trattati in modo differente decidono di rimanere. Ed è solo a questo punto che vengono loro consegnate le chiavi della cella. (…)
Il lavoro deve fare parte del contesto ed è parte della proposta. Nel metodo APAC, il regime chiuso corrisponde al tempo del recupero, il semi aperto è professionalizzante, il regime aperto è finalizzato all’inserimento sociale. Il lavoro applicato a ciascuno dei regimi viene raccordato alla finalità proposta.
La famiglia del “recuperando” viene tenuta in grande considerazione perché non sia colpita dalla pena scontata dal parente. Si cerca così di fare il possibile per non rompere i lacci affettivi tra il detenuto e la famiglia; ad esempio: telefonando una volta al giorno a casa, scrivendo lettere, favorendo la partecipazione e il coinvolgimento dei familiari nelle feste più importanti come la festa della mamma, del papà, il compleanno dei bambini, le festività religiose.
I capisaldi del metodo Apac sono “amore, fiducia e disciplina”. Il terzo cardine, la disciplina, è assai importante. Il metodo Apac ha successo perché i detenuti sono trattati come persone e sono responsabilizzati per quello che avviene all’interno della struttura.
Il male non va giustificato ma abbiamo il dovere di cercare di comprendere il perché di una vita che è deragliata, con la grammatica di quella misericordia che – come ripetutamente afferma Papa Francesco “non cancella la giustizia, ma la rende umana”.