E’ di pochi giorni fa l’incredibile episodio (degno di un film comico italiano degli anni cinquanta) del primo ministro canadese Justin Trudeau accusato di razzismo per aver partecipato nel 2001 a una festa in maschera con la faccia imbrattata di nero e indossando un vistoso turbante. Ora, visto che Trudeau ha costruito una carriera dando del razzista a chiunque non fosse d’accordo con le sue idee, verrebbe da dire ‘chi la fa l’aspetti’, ma le cose non sono così semplici. Il ministro canadese ha dovuto fare autocritica e ammettere di essersi ‘comportato da razzista’ con tanto di faccia contrita davanti ai teleschermi.
A qualsiasi persona sana di mente, la cosa appare del tutto paradossale, non si capisce cosa ci sia di male in una innocente mascherata. Mi vengono in mente le feste di carnevale da bambino e poi da ragazzo e, mentre sono ragionevolmente sicuro di non rischiare ritorsioni da pirati e pronipoti di Zorro (credo di poter facilmente dimostrare che si tratti di un personaggio di fantasia), non sono altrettanto sicuro per quel che riguarda i Nativi Americani e gli affetti da acromegalia (mannaggia a quella balzana idea di travestirmi da Frankestein a una festa di quaranta anni fa… ho paura ci siano delle foto in giro).
Poi mi dico che non faccio il primo ministro, che non sono un personaggio pubblico, e che ho la grazia (immeritata) di vivere in Italia e non in Canada, negli Stati Uniti o in Svezia, e mi metto tranquillo.
Purtroppo questa demente parodia dell’opinione pubblica che offre un potere smisurato a qualsiasi combriccola di sedicenti ‘difensori di qualsiasi minoranza’ (credo che almeno il 99.9% dei musulmani di origine africana sia indifferente alle maschere indossate da Trudeau) non è altro che l’ennesimo frutto avvelenato del capitalismo terminale.
Non a caso queste questioni sono molto frequenti nelle lotte commerciali: possiamo enumerare vari marchi famosi costretti a una autocritica del genere di quelle in voga durante la rivoluzione culturale cinese: Barilla, Dolce e Gabbana, è di questi giorni il caso di Gucci e Adidas.
Ora tutto ciò sarebbe pura materia di ilarità, se questo virus censorio non si insinuasse subdolamente nelle nostre scuole erodendo ogni possibilità di libero scambio di opinioni, se non inasprisse le divisioni all’interno della società costringendoci all’isolamento o a discorsi tra amici fidati.
La necessità di evitare danni economici e/o di immagine politica, ha fatto gemmare un nuovo tipo di lavoro che (come spesso accade alle occupazioni vacue) vanta il pomposo nome anglosassone di Chief Diversity Officer. Come si apprende dal fantastico sito workology.com, gli stipendi non sono affatto male e la prospettiva potrebbe essere allettante per molti giovani in cerca di occupazione.
Noto (con una certa dose di raccapriccio e un pizzico di risentimento) come uno che faccia questo lavoro abbia molti meno problemi a spiegare la sua occupazione (‘evitare che qualche gruppo minoritario si senta offeso o discriminato’) di quante non ne sperimenti io che, ogni volta che il mio interlocutore non si accontenti di un generico ‘Ricercatore’, e incalzi con ‘si vabbè ma di cosa ti occupi in pratica?’, nella gran parte delle occasioni non riesca a fornire risposte soddisfacenti. Insomma, mentre l’ipotetico Chief Diversity Officer passerebbe per un benefattore dell’umanità, io vengo molto spesso considerato un mangiapane a tradimento e la cosa mi scoccia…moltissimo.
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