Enrico Fermi è stato uno dei quattro-cinque fisici più geniali e influenti dello scorso secolo. A differenza di altri scienziati dell’epoca d’oro della fisica moderna, non è mai diventato un’icona pop come Einstein o Feynman e neanche una figura obbligatoria da citare per affermare la propria caratura intellettuale come Heisenberg o Dirac. L’assenza di Fermi dal panorama culturale e mediatico è in larga parte dovuta alla sua vita insopportabilmente normale (una bella famiglia, la passione per le gite in campagna nei fine settimana…) per un europeo acculturato e al suo stile metodico ed equilibrato.
I suoi colleghi avevano però per lui una stima e un rispetto sconfinato per la sua abilità di rendere semplici e chiari problemi molto complicati e per la prodigiosa capacità di padroneggiare ogni aspetto della fisica. Solo in questi ultimi anni è apparsa una bella biografia di Enrico Fermi che fa giustizia alla sua grandezza, non a caso intitolata L’ultimo uomo che sapeva tutto. Come appunto lo soprannominavano i colleghi. Nel libro è particolarmente rivelatorio un ricordo di Richard Feynman che, mentre proponeva al molto più anziano Enrico Fermi una sua teoria basata su una matematica molto complessa, venne interrotto dal fisico romano che lo pregò di farlo riflettere per un attimo, passati pochi minuti Fermi propose a Feynman quella che a lui sembrava dovesse essere la soluzione e, con immenso stupore del giovane fisico americano, era quella giusta!
Come aveva fatto? Bè, alla base c’era sì la grande padronanza matematica di Fermi (che però, a differenza di tutti i fisici teorici era anche molto versato dal punto di vista sperimentale), ma anche il futuro premio Nobel Feynman aveva una eccezionale preparazione matematica, eppure aveva avuto bisogno di settimane di applicazione per arrivare allo stesso risultato. Ciò che rendeva lo scienziato italiano unico era il suo istinto infallibile nel distinguere ciò che era veramente essenziale in un problema da ciò che lo era molto meno e quindi trascurabile.
Individuato il nucleo essenziale del problema, prima di arrivare a definirne il dettaglio, egli approssimava una soluzione che mantenesse ‘l’ordine di grandezza’ del fenomeno (una soluzione ‘a spanne’) e solo se questa soluzione approssimata lo soddisfaceva quanto a ‘senso fisico’ andava avanti.
Enrico Fermi educava gli allievi a questo stile di pensiero, somministrando loro una serie di problemi matematicamente molto semplici, tratti dalla vita comune, che però richiedevano un pensiero profondo e pronto per arrivare a una soluzione. Questi problemi, detti Problemi di Fermi consistono tipicamente nel fare ipotesi motivate su quantità che sembrano impossibili da calcolare, date le limitate informazioni disponibili (si veda il problema della stima del numero degli accordatori di pianoforte a Chicago). Questi problemi sono ancora usati nella selezione per impieghi di alta creatività e responsabilità. In realtà, essendo basati solo sulla conoscenza delle quattro operazioni, potrebbero essere con grande profitto usati nelle nostre scuole come potentissima arma per arginare il degrado del pensiero che in questi ultimi anni appare inarrestabile.
I problemi di Fermi sono l’antidoto perfetto alle lusinghe del mondo post-moderno: invece di atrofizzare la mente cercando nella biblioteca di Babele di Google la ‘soluzione già pronta’, la sviluppiamo arrivando a una soluzione meno precisa ma che mantiene il senso della realtà soggiacente. Ma essi sono anche la base con cui affacciarsi al mondo facendo da subito le domande giuste: ‘Quanto è grande?’, ‘Quanto dura?’, ‘Quante persone coinvolge?’… prima che la demoniaca tentazione del ‘caso ideale’, dell’ ‘anche uno solo è troppo’ annichilisca la nostra libertà di giudizio.
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