Poiché però le leggi elettorali, secondo la giurisprudenza costituzionale, sono costituzionalmente necessarie «in quanto “indispensabili” per assicurare il funzionamento e la continuità degli organi costituzionali», la Corte avvertì, nella stessa sentenza, che lo scioglimento delle Camere non sarebbe potuto avvenire se non dopo l’approvazione di nuove leggi elettorali. La Consulta pertanto prudentemente avvertì che le leggi eventualmente approvate nella XVII legislatura, ancorché radicalmente viziata, avrebbero comunque dovuto essere considerate legittime grazie al «principio fondamentale della continuità dello Stato».
Un principio – si badi bene – che però non si pone come “alternativo” al principio della sovranità popolare e al suffragio universale come «la forma più squisitamente politica» della sovranità (Corte cost., sent. n. 107 del 1976). Ed in effetti, nelle ultimissime battute della citata sentenza del 2014, la Corte, nel richiamare gli articoli 61 e 77 della Costituzione, fece chiaramente comprendere che il principio della continuità avrebbe potuto valere tutt’al più per pochi mesi, ma non certo in sostituzione dell’intera legislatura.
Ciò nondimeno, appena quattro mesi dopo la pubblicazione di quella sentenza e due mesi dopo la costituzione del governo Renzi, fu irresponsabilmente dato inizio, grazie alla discutibile iniziativa del Presidente della Repubblica, ad un percorso di riforma costituzionale, che le opposizioni – e soprattutto il M5S – immediatamente e ripetutamente sottoposero a critiche radicali, sottolineando come il d.d.l. Boschi fosse in palese violazione della sentenza della Corte costituzionale.
È bensì vero che, in quei primi mesi del 2014, lo scioglimento anticipato delle Camere avrebbe portato alle stelle lo spread nei confronti del Bund tedesco. Tuttavia, una cosa era limitarsi ad esercitare le ordinarie funzioni parlamentari per un periodo limitato del tempo, altra cosa è stato l’azzardo istituzionale di dare inizio ad una riforma con un Parlamento delegittimato dalla Consulta.
Non ha quindi alcuna giustificazione né logica né giuridica né politica che la XVII legislatura sia continuata per tutto questo tempo nonostante le Camere non siano rappresentative della volontà popolare. E’ bensì vero che, come già ricordato, che la Consulta avvertì che le leggi eventualmente approvate prima dello scioglimento delle Camere avrebbero dovuto essere considerate legittime. Ma ciò non implicava, e non implica che, grazie alla presunta validità di tali le leggi, le Camere avrebbero potuto recuperare una autonoma legittimazione giuridica e politica, essendo il voto popolare, in uno Stato democratico, la fonte esclusiva di legittimità.
2. Non sto qui a ricordare le palesi violazioni procedurali che hanno costellato il procedimento di riforma costituzionale (irrituali sostituzioni di componenti della Commissione Affari costituzionali del Senato, privazione delle opposizione del diritto di avere un relatore di minoranza, applicazione del metodo del “super canguro” per porre fuori gioco gli emendamenti delle opposizioni, e così via) che hanno abbassato il disegno di legge Boschi a livello di una qualsiasi legge ordinaria d’indirizzo politico, conseguente dal gravissimo errore istituzionale del Presidente Napolitano di aver insistito, come già nel 2013 col governo Letta, per una riforma “governativa” anziché “parlamentare”. Un errore tanto più grave, in quanto la Corte aveva chiaramente sottolineato che la XVII legislatura era caratterizzata da una «eccessiva sovra-rappresentazione della lista di maggioranza relativa».
Il risultato di questo duplice errore è una riforma pasticciata e incostituzionale che, come accennerò qui di seguito, viola l’elettività diretta del Senato e il principio di eguaglianza/razionalità nella composizione del Senato; che non prevede efficaci contro-poteri al Governo (così agevolando il premierato assoluto previsto dall’Italicum) e contraddice la “promozione” delle autonomie locali, con la seguente conseguenza: che qualora l’esito del prossimo referendum fosse positivo, la riforma Renzi-Boschi costituirebbe un “fatto eversivo” della vigente Costituzione.
Un fatto “eversivo” che, con la forza fattuale del “potere costituente”, inciderebbe sulla forma di governo, sulla forma di Stato, sulle forme di esercizio della sovranità popolare, sul principio di eguaglianza, sulla libertà di voto e indirettamente sugli stessi diritti sociali.
3. Ciò premesso, la legge Boschi è una legge di “riforma” costituzionale (non una legge di “revisione”!) dal contenuto disomogeneo relativo a 47 articoli della Costituzione. Il che coercisce la libertà di voto degli elettori in sede di referendum, i quali hanno a loro disposizione un solo voto mentre le modifiche sottoposte all’elettore nel quesito referendario sono almeno cinque.
La legge Boschi privilegia, grazie alla nuova legge elettorale (c.d. Italicum) – sotto questo profilo, assai simile al c.d. Porcellum -, la governabilità sulla rappresentatività prevedendo di fatto un “uomo solo al comando”, non già perché aumenti i poteri del Premier, ma perché da un lato elimina il Senato come titolare del rapporto di fiducia e dall’altro prevede che lo statuto delle opposizioni venga approvato (a maggioranza assoluta) dal regolamento della Camera.
La legge Boschi contraddice la sovranità popolare, attribuendo ai consigli regionali, e non ai cittadini, il diritto di eleggere il Senato ancorché l’art. 1 della Costituzione affermi che la sovranità “appartiene” al popolo che la “esercita” col suffragio universale: un principio pacifico sin dal 1948 e addirittura ritenuto “supremo” e immodificabile dalla Corte costituzionale (sentenze n. 1146 del 1988 e n. 1 del 2014). Ciò nondimeno la legge Boschi ribadisce la spettanza al Senato della funzione legislativa e di revisione costituzionale ancorché sia privo di legittimazione democratica.
La legge Boschi prevede che il Senato “rappresenterebbe” le istituzioni territoriali – cosa, questa, possibile solo negli Stati federali – mentre le funzioni del Senato continuerebbero ad essere quelle tipiche di un organo dello Stato centrale e i senatori sarebbero eletti dai Consigli regionali e non dai cittadini. Diversamente da quel che si sostiene da taluni autorevoli sostenitori della riforma (C. Pinelli), il Senato non avrà natura territoriale, in quanto i senatori non avranno né il vincolo di mandato come lo Stato federale tedesco, né le Regioni avranno lo stesso numero di senatori come negli Stati Uniti d’America. Il Senato avrà quindi natura politico-rappresentativa né più né meno della Camera dei deputati.
La legge Boschi prevede che i senatori esercitino anche le funzioni di consigliere regionale e di sindaco, senza considerare che la duplicità delle funzioni impedirebbe loro l’adempimento puntuale delle importanti e onerose funzioni connesse alla carica senatoriale. A questo riguardo, la legge Boschi viola sotto vari profili il principio di eguaglianza e di coerenza dell’ordinamento con una serie di disposizioni irrazionali: a) sottodimensiona la composizione del Senato (100 senatori) rispetto alla composizione della Camera dei deputati (630 deputati) rendendo irrilevante il voto dei senatori nelle riunioni del Parlamento in seduta comune per le elezioni del Presidente della Repubblica e dei componenti del CSM; b) attribuisce ai 100 senatori il potere di eleggere due dei cinque giudici costituzionali mentre i 630 deputati ne eleggerebbero solo tre, il che se da un lato si giustificherebbe solo in uno Stato federale come la Germania, dall’altro contrasta col principio di proporzionalità; c) rende possibile l’elezione a senatore dei consiglieri regionali e dei sindaci appena diciottenni diversamente dai deputati che dovranno aver compiuto i 25 anni; d) prevede la nomina, da parte del Presidente della Repubblica, di cinque senatori per la stessa durata del suo mandato con il rischio della costituzione di un “partitino” del Presidente; e) estende l’immunità personale ai consiglieri regionali e ai sindaci ancorché eserciterebbero le funzioni senatoriali solo part time, col rischio che il Senato divenga un refugium peccatorum.
La legge Boschi amplia il potere d’iniziativa legislativa del Governo mediante disegni di legge attuativi del programma di governo da approvare entro 70 giorni dalla deliberazione d’urgenza dell’assemblea, con ciò restringendo ulteriormente lo spazio per l’iniziativa legislativa parlamentare già ridotto al solo 20 per cento. La legge Boschi mentre conferma, in via d’eccezione, il procedimento legislativo paritario per le sole leggi costituzionali e di revisione costituzionale e una quindicina di importanti materie organizzative, prevede, in linea generale, un procedimento legislativo nel quale l’intervento del Senato è solo eventuale, derogata però da una serie di procedimenti legislativi speciali (bilancio, clausola di supremazia ecc.) nei quali la presenza del Senato sembrerebbe prevista obtorto collo. Che però, data la formalizzazione dei procedimenti, potrebbe creare delle difficoltà qualora il Senato non avesse la stessa maggioranza della Camera.
La legge Boschi elimina, nei rapporti dello Stato con le Regioni, la potestà legislativa concorrente delle Regioni ingiustamente accusata dell’immane contenzioso costituzionale. Attribuisce allo Stato la competenza legislativa esclusiva in ben 51 materie, mentre alle Regioni è attribuita la competenze legislativa esclusiva in una quindicina di materie soprattutto organizzative.
Le politiche sociali, la tutela della salute, il governo del territorio, l’ambiente e il turismo, che costituiscono il cuore dell’autonomia legislativa regionale, vengono attribuite alla potestà legislativa esclusiva dello Stato ma limitatamente alle «disposizioni generali e comuni» senza però specificare a chi competa la normativa d’attuazione. La legge Boschi dimentica di attribuire a chicchessia (Stato o Regioni) la competenza legislativa esclusiva in materia di circolazione stradale, di lavori pubblici, di industria, agricoltura, artigianato, attività mineraria, cave, caccia e pesca, che però, data la clausola residuale in favore delle Regioni, verrebbero implicitamente attribuite alla potestà legislativa di queste ultime – in controtendenza al disegno complessivo statalistico – con la conseguenza di non attenuare e tanto meno risolvere il problema del contenzioso costituzionale Stato-Regioni.
Infine, da più di un autorevole studioso si è prospettato che questa drastica e generalizzata riattribuzione di competenze legislative esclusive allo Stato – solo in parte giustificata dagli eccessi della legge costituzionale n. 3 del 2001 che conferì alla potestà legislativa concorrente delle Regioni materie d’importanza nazionale quale la disciplina dei porti e aeroporti; delle grandi reti di trasporto e di comunicazione; dell’ordinamento della comunicazione; della produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia -, rischia addirittura di contraddire il “riconoscimento” e la “promozione” delle autonomie locali prevista dall’art. 5 della Costituzione (U. De Siervo), anche perché la riduzione dei poteri legislativi avrà un’automatica ricaduta sui poteri dei Comuni e degli altri enti locali, in quanto saranno le burocrazie ministeriali a gestire «le materie entro le quali verranno attribuite le funzioni agli enti locali».