Proverò a riassumere le mie perplessità intorno a tre questioni che sono di metodo prima ancora che di sostanza nella consapevolezza che non basta dire no.

Sono gli stessi studiosi e docenti universitari (oltre 200) che hanno firmato un manifesto sulle ragioni del sì a riconoscere che nella riforma della Costituzione che sarà sottoposta a referendum ci sono «difetti e discrasie». Anche se tali difetti sarebbero da imputare al fatto che le riforme non le fanno «comitati di esperti», non sono comunque il risultato di «scelte gravemente sbagliate o oggettivamente divisive» e non dovrebbero dunque impedire di varare definitivamente una riforma «che affronta efficacemente alcune fra le maggiori emergenze istituzionali del nostro Paese».

Diversa è la conclusione che si legge in un documento sottoscritto da 56 costituzionalisti (fra i quali numerosi presidenti emeriti della Corte costituzionale): il processo di riforma, nato con l’intenzione ovviamente condivisibile di migliorare le nostre istituzioni, si è tradotto in «una potenziale fonte di nuove disfunzioni del sistema istituzionale e nell’appannamento di alcuni dei criteri portanti dell’impianto e dello spirito della Costituzione». Anche se non si tratta della «anticamera di uno stravolgimento totale» dei suoi principi. Nel momento del voto ciascuno di noi deciderà se dare ragione agli uni o agli altri.

È però importante che il confronto – anche duro, se necessario – si mantenga entro il perimetro di reciproco rispetto tracciato da queste posizioni: i difetti ci sono e chi li ritiene alla resa dei conti trascurabili o, al contrario, particolarmente gravi non è in ogni caso un nemico della democrazia.
Anch’io, come i costituzionalisti del no, ritengo che dalle buone intenzioni sia uscito, purtroppo, un brutto testo. Proverò a riassumere le mie perplessità intorno a tre questioni che sono di metodo prima ancora che di sostanza. Per poi concludere con una indicazione operativa.

Il nuovo Senato e l’Italicum
Il Presidente del Consiglio, in un intervento del 31 maggio a Milano, ha affermato con chiarezza che la posta in gioco nel referendum è prima di tutto l’alternativa fra un sistema in cui chi vince governa e gli altri fanno l’opposizione e un sistema nel quale si fanno invece «le grandi ammucchiate tutti insieme». Ma questo è l’effetto garantito dalla nuova legge elettorale, non dalla nuova Costituzione: basterebbe, in un quadro frammentato come quello italiano, eleggere l’unica Camera che vota la fiducia al Governo con un sistema rigorosamente proporzionale per ritornare al punto di partenza.

Senza la determinazione e l’abilità di Matteo Renzi questa riforma non ci sarebbe stata ed è dunque doveroso prendere sul serio il modo in cui egli ci invita a valutarne “nel merito” i contenuti: il referendum è, di fatto, sull’intero pacchetto e la promessa di maggiore velocità ed efficienza del lavoro parlamentare dipende in larga misura da ciò su cui, formalmente, non si vota (l’Italicum).

Sapere la sera delle elezioni chi ha vinto e dunque guiderà il paese è importante, ma nel momento in cui si ridisegna in modo così incisivo il rapporto fra rappresentanza e governabilità è ugualmente essenziale rafforzare la cultura e gli strumenti dei limiti del potere e della sua crescente personalizzazione. È sempre Matteo Renzi, con le sue ripetute dichiarazioni a favore dell’introduzione di un limite di due mandati a Palazzo Chigi, ad invitarci a riflettere seriamente su questo punto, riconoscendo implicitamente le ragioni di chi sostiene che le garanzie tipiche di un sistema parlamentare potrebbero non bastare. E non basta certo, per risolvere il problema, aggiungere un referendum propositivo del quale saranno le Camere, non si sa quando, a disporre le modalità di attuazione. Le due riforme (della legge elettorale e della Costituzione) sono state pensate e volute insieme e i loro effetti si sommano. Chi lo sostiene – e per questo si preoccupa – non sta mescolando in modo strumentale cose diverse.

Troppi compromessi e troppa confusione per una Costituzione
Il testo della riforma appare in troppi passaggi il risultato di un lavoro parlamentare nel quale l’esigenza di fare bene, soprattutto considerando che si stava riscrivendo la Costituzione, è stata sacrificata a quella di arrivare comunque a “chiudere” e portare a casa il risultato. Si è preferito in questo modo procedere per stratificazione di compromessi, che lasciano a tutti la possibilità di interpretare diversamente ciò che intanto si approva, anziché arrivare a soluzioni chiare e comprensibili. Ci sarà sempre il tempo – si dice – per rimediare a «difetti e discrasie». Insomma: accettiamo questo brutto testo e poi si vedrà.

Due passaggi illustrano in modo esemplare le conseguenze di questo approccio e coinvolgono i pilastri della riforma. Non sappiamo come saranno davvero scelti i nuovi senatori: all’indicazione già confusa della loro elezione da parte dei Consigli regionali, tra i sindaci dei rispettivi territori oltre che tra i propri componenti, si è aggiunta, per superare l’opposizione di chi voleva l’elezione diretta, la «conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi». Auguri a chi dovrà scrivere la relativa legge. Agli elettori, per ora, si chiede di esprimersi nel referendum senza sapere come si uscirà da questo pantano (inciucio?) di parole. Le disposizioni del nuovo Titolo V non si applicheranno alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e di Bolzano «fino alla revisione dei rispettivi statuti sulla base di intese con le medesime Regioni e Province autonome». Cosa accadrà se queste intese risulteranno difficili da raggiungere, visto che alle Regioni vengono sottratti alcuni significativi poteri? Avremo a tempo indeterminato, su una questione fondamentale come il rapporto fra il centro (lo Stato) e la periferia (le istituzioni territoriali), una Costituzione per le regioni (e i cittadini) “normali” e una per le regioni (e i cittadini) “speciali”?

Quando i compromessi sono troppi e la confusione diventa troppo grande può non essere facile individuare la soglia oltre la quale la scelta di dire “no” diventa inevitabile. Questa scelta, in ogni caso, non può essere liquidata come sintomo di oscurantismo.

L’Italia dei diritti resta un’Italia disuguale
Le modifiche del rapporto fra Stato e Regioni sono un vero e proprio tentativo di “riforma della riforma”. Si prende atto delle gravi conseguenze prodotte dall’intervento del 2001 e si cerca di porre rimedio. Il contenzioso che si è creato intorno alla legislazione “concorrente” è tuttavia destinato a riprodursi. E proprio là dove sono in gioco diritti fondamentali, rispetto ai quali è ormai chiara l’insopportabile disuguaglianza fra i cittadini italiani, diversi non solo perché ricchi o poveri, ma anche perché hanno avuto la sorte di nascere e vivere in una regione anziché in un’altra. Chi deciderà per esempio, dove finisce l’ambito delle «disposizioni generali e comuni» dettate dallo Stato per la sanità e comincia la libertà di «programmazione e organizzazione» delle Regioni?

La nuova Costituzione inserisce la responsabilità dello Stato per le prime accanto a quella per la «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» e questo legittima purtroppo il timore che non sarà superato l’equivoco per il quale l’impegno della Repubblica per la tutela della salute come «fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività», fissato dall’articolo 32 della Costituzione, si misura più sulla garanzia del minimo indispensabile che sull’obiettivo della sostanziale parità di trattamento di tutti i cittadini, in modo «necessariamente unitario ed uniforme in tutto il territorio nazionale», per usare le parole utilizzate in una sentenza della Corte costituzionale del 2009 in tema di istruzione. Per la tutela della salute e per l’istruzione i doveri dello Stato vengono “costituzionalizzati” con la stessa espressione utilizzata per il turismo. Io voglio di più e ritengo che non sia possibile aspettare altri quindici anni per accorgersi che quel che si è fatto, purtroppo, non bastava.

Uno sforzo di coraggio e di creatività
Una riforma della Costituzione di questa portata è un passaggio importante e disegna un sistema istituzionale che durerà comunque per anni. Ecco perché scelte sbagliate o comunque inadeguate, presentate come un modo per cominciare almeno a muoversi nella giusta direzione, potrebbero in realtà allontanare la possibilità di un progresso vero e anche più solido, perché condiviso. Occorre allora augurarsi che il “no” e il “sì” sappiano ritrovarsi, nella società civile e auspicabilmente fra le stesse forze politiche, nell’impegno a vivere la campagna referendaria anche con questo obiettivo: discutere il testo che c’è per fare proposte concrete da lasciare il “giorno dopo” al Parlamento, che ha ancora molto tempo per lavorare prima della fine della legislatura. Per varare una riforma diversa o per tentare di diradare le molte ombre di quella sulla quale si voterà. Il “no” per non cambiare nulla, a mio avviso, è sbagliato. Il “sì” che si accontentasse di regolare i conti sulla Costituzione a colpi di maggioranza, nel paese dopo averlo fatto in Parlamento, dimostrerebbe di avere una concezione pienamente legittima e tuttavia triste della democrazia. Così come è triste l’idea, alla quale dovremmo cercare di non rassegnarci mai, che le cose che più contano per tutti non si possano fare insieme. È impossibile provarci?

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