Di per sé la modificazione di alcune parti della Costituzione può essere un’opportuna forma di modernizzazione delle istituzioni e quindi di maggiore efficacia dei fondamentali principi e valori costituzionali. Occorre però esaminare davvero e con attenzione il contenuto effettivo delle disposizioni modificate e la coerenza e l’efficacia delle innovazioni, sfuggendo a slogan semplicistici od addirittura demagogici e falsanti. Infatti le innovazioni costituzionali errate o confuse possono produrre effetti molto gravi e non facilmente rimediabili: non a caso, uno dei motivi dell’intervento attuale deriva dalla cattiva qualità di parte della riforma costituzionale del 2001, che pure aveva anche alcuni contenuti largamente condividibili. Occorre quindi evitare di ripetere in grande (ora si vogliono modificare oltre 46 articoli) quanto si è fatto quindici anni fa, quando se ne modificarono 19.
Ciò anche perché con l’attuale riforma non si toccano solo alcuni importanti profili organizzativi delle istituzioni, ma implicitamente si incide sulla qualità della nostra democrazia e sulla effettiva consistenza di alcuni grandi valori costituzionali (l’autonomia territoriale e la qualità di alcuni diritti sociali, come il diritto alla salute e alla sicurezza sociale).
Purtroppo la riforma costituzionale adottata dal Parlamento presenta, insieme ad alcune parti condivisibili (abolizione del CNEL e delle Province, riforma della decretazione d’urgenza, ecc.), vari e gravi difetti, che possono peggiorare notevolmente il complessivo funzionamento delle nostre istituzioni democratiche: nessuno comprerebbe un’auto nuova nella quale, insieme a qualche buona innovazione, si rilevano seri difetti strutturali ed una dubbia efficienza complessiva.
Proviamo ad indicare sinteticamente alcuni dei massimi difetti della riforma costituzionale.
Le troppe critiche al nostro bicameralismo (le lentezze legislative sono il frutto delle incertezze del sistema politico, non del Senato!) hanno prodotto la trasformazione del Senato in una Camera dalla natura assai incerta e confusa, non essendosi voluta seguire con coerenza l’esperienza di altre democrazie che hanno organi analoghi. Ad esempio, si esclude anche opportunamente che quest’organo debba “dare la fiducia” al Governo, a cui quindi basterà quella espressa da parte della Camera dei deputati (in cui la nuova legge elettorale dovrebbe garantire l’esistenza di una larga maggioranza). Ma allora non si comprende per quale motivo la riforma affidi proprio al nuovo Senato vasti poteri di controllo sul Governo ed al suo potere legislativo pieno anche alcune materie altamente politiche (basti pensare ai poteri relativi ai Trattati europei).
Nella riforma si sceglie il modello di un Senato che dovrebbe rappresentare a livello nazionale il pluralismo territoriale, così tutelandolo, ma in realtà è molto discutibile che il nuovo Senato rappresenti davvero autorevolmente il nostro pluralismo territoriale: 74 Consiglieri regionali e 21 Sindaci, scelti dai Consigli regionali per fare i Senatori “a tempo limitato” (dovrebbero continuare nelle loro funzioni nei loro enti, senza neppure alcuna indennità aggiuntiva) e cinque Senatori di nomina presidenziale, nonché gli ex Presidenti della Repubblica (queste ultime categorie palesemente estranee ad ogni rappresentanza dei territori) rischiano di costituire un organo assai debole. Ciò mentre i cittadini elettori sarebbero esclusi dalla loro elezione.
Ma soprattutto non si capisce cosa esattamente debba fare quest’organo a tutela delle autonomie territoriali: in particolare le sue ridotte funzioni legislative piene (in una quindicina di materie, mentre in tutte le altre materie il Senato avrebbe poteri di tipo sostanzialmente consultivo) paradossalmente non riguardano mai le leggi che il Parlamento dovrà fare per distinguere le aree statali da quelle regionali, invece riservate alla Camera dei deputati, espressiva delle classi politiche nazionali, sotto l’influenza dei Ministeri statali e delle loro burocrazie.
Al tempo stesso, il procedimento legislativo nazionale viene straordinariamente complicato dalla sommaria disciplina di ciò che spetta al Senato e alla Camera dei deputati: nelle moltissime e diverse materie nelle quali il Senato può o deve (in qualche caso) intervenire nel procedimento legislativo con poteri sostanzialmente consultivi e nei ridotti casi nei quali il Senato resta organo legislativo, spesso non sono affatto chiari i termini del suo rapporto con la Camera, con il rischio realistico che sorgano molti conflitti di attribuzione fra le due Camere, o di costituzionalità fra Regioni e Stato o fra interessati e Stato.
Ciò mentre vengono ridotti moltissimo i poteri delle quindici Regioni ordinarie: con la scusa della necessità di porre rimedio ad errori ed esagerazioni della riforma del 2001, si opera in realtà una drastica riduzione di quasi tutti i poteri regionali, riduzione che mette in forse le stesse originarie scelte del 1948 a favore di un sistema fortemente decentrato e partecipato e che riduce le Regioni a poco più di grandi Province amministrative. In quasi ogni settore starà infatti al legislatore statale (e cioè alla Camera dei Deputati) decidere discrezionalmente l’area di autonomia delle Regioni, senza trovare precisi vincoli nella disciplina costituzionale (le “disposizioni generali e comuni” appaiono liberamente configurabili dal legislatore nazionale). Tutto ciò equivale ad un fortissimo ritorno indietro, verso un grande accrescimento dei poteri e della consistenza delle amministrazioni ministeriali.
Ma forse il netto e confuso riaccentramento statale espone pure a rischi le caratteristiche di alcuni diritti sociali (all’assistenza, alla sanità, al governo del territorio, ad esempio) finora realizzati essenzialmente tramite l’attività delle amministrazioni regionali e locali. Ciò mentre parallelamente crescono fortemente i poteri del Governo, da cui dipendono le burocrazie ministeriali.
Mentre questo riguarda le quindici Regioni ordinarie, le cinque Regioni ad autonomia speciale (Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia) restano estranee a tutto ciò (perfino all’applicazione della innovativa clausola di supremazia!) e mantengono tutti i loro attuali poteri e privilegi, anzi accresciuti dall’incredibile nuova previsione che le future modificazioni dei loro ordinamenti sarà possibile solo d’intesa con la Regione o la Provincia interessata. In tal modo, senza alcuna discussione pubblica e contraddicendo quanto largamente auspicato sull’opportunità di avvicinare le diverse autonomie regionali, si porrebbero le premesse per un nuovo grande accentramento burocratico, con tutto ciò che ne segue, e si accentuerebbero moltissimo le diseguaglianze fra i due tipi di Regioni (e fra le relative popolazioni).
Per di più, queste rilevanti innovazioni avvengono tramite una nuova disciplina spesso sommaria e imprecisa, assai inadatta a norme costituzionali, che dovrebbero invece caratterizzarsi per comprensibilità e assoluta chiarezza. Basti qui ricordare che nella nuova riforma del Titolo V, da una parte si svuota radicalmente le competenze legislative regionali, raddoppiando le competenze esclusive statali anche in ambiti tipicamente locali (urbanistica, paesaggio, salute, politiche sociali, ecc., ecc.), dall’altra però si ripete una “clausola residuale” del 2001, secondo la quale spettano alla Regione tutte le competenze non espressamente attribuite allo Stato, senza accompagnare però tutto ciò ad elencazioni complete ed esaustive delle diverse materie. Di conseguenza paradossalmente dovrebbero spettare alle Regioni materie come l’industria, il commercio, la agricoltura, l’artigianato, l’attività mineraria, ecc., ecc. Ad una gravissima “dimenticanza” del genere si porrà evidentemente rimedio tramite una probabile intensa conflittualità dinanzi alla Corte costituzionale, chiamata ancora una volta a “tamponare” gravi errori di coloro che riformano la Costituzione senza adeguata lucidità e capacità.
Infine, queste confuse trasformazioni rischiano perfino di incidere negativamente sulla piena autonomia di due organi fondamentali di bilanciamento e di equilibrio del sistema complessivo, come il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale. Infatti l’aumento delle maggioranze necessarie per l’elezione del Presidente della Repubblica anche dopo molteplici votazioni, paradossalmente può favorire il Governo, perché il Presidente potrebbe non essere eletto anche molto a lungo o essere il frutto di un’intesa su un candidato debole. A sua volta la Corte costituzionale viene spinta in ambiti più vicini alla politica (esame preventivo della leggi elettorali; molteplici competenze nelle liti Camera/Senato e nei nuovi vizi delle leggi) e l’elezione di due dei suoi giudici da parte del Senato potrebbe permettere la nomina di giudici portatori di interessi settoriali, con il rischio di tensioni all’interno dell’organo di giustizia costituzionale.
C’è davvero da augurarsi che venga respinta la tendenza delle forze politiche momentaneamente maggioritarie di operare revisioni costituzionali senza ricercare il più vasto consenso e cercando di sostituirlo con consensi plebiscitari, conseguiti solleticando sensibilità più o meno demagogiche. Come non mai, abbiamo bisogno di una larga condivisione di valori e di regole comuni e quindi sarebbe gravissimo dare la sensazione che, invece, questi non vi sono più e che tutto si riduce alla politica contingente.