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“Tra l’uomo e la donna
C’è l’amore
Tra l’uomo e l’amore
C’è tutto un mondo
Tra l’uomo e il mondo
c’è un muro” (Antoine Tudal, Paris en l’an 2000)

Secondo Jaques Lacanciò che distingue il discorso del capitalismo è il rigetto della castrazione. [..] Ogni discorso che si assimila al capitalismo lascia da parte quelle che noi semplicemente chiameremo le cose dell’amore […] non è roba da niente1.

Femminicidio è stata la parola dell’anno appena passato. Il femminicidio è l’uccisione di una donna in quanto donna. Il neologismo composto da cidio e femina per estensione si riferisce a qualsiasi forma di violenza fisica, economica, psicologica, esercitata in maniera sistematica sulla donna fino ad annientarne l’identità, fino alla schiavitù o alla morte.

Questi tipi di uccisione che colpiscono la donna non costituiscono incidenti isolati, frutto di perdite improvvise di controllo o di patologie psichiatriche, ma si configurano come l’ultimo atto di un continuum di violenza. E proprio per questo che il termine occupa la scena mediatica e necessita di interventi istituzionali, legislativi ed educativi.

Purtroppo, il cammino è ancora lungo e c’è molta strada da fare.

È indubbio che la nuova legge2 abbia introdotto importanti modifiche atte a tener conto delle famose tre P necessarie per contrastare la violenza maschile contro le donne: pene certe e severe degli autori di violenza, prevenzione del rischio per evitare il peggio e protezione delle vittime. Al contempo però occorre evidenziare alcune criticità emerse a partire dall’esperienza e dall’ascolto degli uomini autori di violenza dentro e fuori dal carcere.

In particolare occorre menzionare che i programmi di recupero per gli autori di violenza prevedono un corso o un percorso terapeutico. Il malinteso tra corso e percorso evidenzia le differenti letture del fenomeno della violenza: criminologica, culturale, psicologico-clinica. La prima prevede la revisione critica del reato, la presa di coscienza del danno procurato alla parte offesa, la valutazione del rischio di recidiva e la messa in atto di strategie di monitoraggio e di tutela individuali e collettive. La seconda favorisce, attraverso tecniche psicoeducative, la comprensione e la piena consapevolezza dei fattori culturali, relazionali ed emotivi della condotta violenta al fine di poterla correggere e poter sperimentare nuove forme relazionali. Infine, la terza mira a trattare la dis-regolazione emotiva e dell’impulso.

Le diverse modalità di intervento hanno un fine comune: correggere la condotta violenta, regolare la rabbia e prevenire il rischio di recidiva. Si tratta di tecniche che pongono al centro l’Io e obliterano l’inconscio. In Italia, i centri di ascolto per gli uomini autori di violenza sono pochi e per lo più si basano sulla lettura sistemico-culturale del fenomeno. Il difficile lavoro con gli uomini maltrattanti diviene un tema divisivo all’interno del dibattito tra i femminismi. Siamo di fronte a un paradosso. Come contrastare la violenza maschile se non si ascoltano gli uomini? Come far fronte al rischio di recidiva?

Il femminicidio di Giulia Cecchettin, come dice Lea Melandri, ha prodotto un salto di coscienza storica. Le parole della sorella e del padre di Giulia, parole usate dai movimenti femministi, escono da una casa privata e si fanno appello. Un appello rivolto agli uomini e un appello rivolto alle “sorelle”. Il grido “bruceremo tutto” si solleva in un’unica voce del movimento Non una di meno, un grido di rabbia, di guerra contro il sistema, contro gli uomini. Le sorelle insieme faranno la guerra contro il patriarcato (violenza sistemica) promuovendo delle azioni di educazione affettiva e sentimentale. Appare sulla scena l’uomo violento/stupratore da combattere e decostruire.

Siamo nell’era #MeToo, la guerra planetaria tra i sessi. Si è squarciato il velo. La parola delle donne fa rumore nei social. Nelle piazze si urla “l’uomo violento non è malato ma è il figlio sano del patriarcato”. Dunque il figlio sano del patriarcato va ri-educato!

Se come afferma Jacques-Alain Miller “la violenza è realizzazione della pulsione di morte” è lecito chiedersi se la violenza è un effetto del patriarcato o è frutto della critica e della guerra contro il patriarcato.

Sigmund Freud risveglia quando afferma che “l’Io non è padrone in casa propria”. L’essere parlante è abitato e comandato dalla pulsione che lo spinge a fare ciò che dichiara di non volere, ciò che lo fa soffrire e di cui non può fare a meno. Si tratta del paradosso della coazione a ripetere che talvolta conduce al peggio.

La psicoanalisi mette in luce l’aspetto strutturale della violenza, e mostra l’orrore della pulsione di morte. Per dirla con Freud, la pulsione non si educa del tutto, rimane sempre un resto che non cessa di soddisfarsi. “L’uomo non è una creatura mansueta bisognosa di amore capace al massimo di difendersi quando è attaccata; è vero invece che occorre attribuire al suo corredo pulsionale anche una buona dose di aggressività. Ne consegue che egli vede nel prossimo non soltanto un eventuale soccorritore o oggetto sessuale, ma anche un oggetto su cui può magari sfogare la propria aggressività, sfruttarne la forza lavorativa senza ricompensarlo, abusarne sessualmente senza il suo consenso, sostituirsi a lui nel possesso dei suoi beni, umiliarlo, farlo soffrire, torturarlo e ucciderlo”3.

L’essere parlante è abitato da una “tendenza all’aggressione”, fattore che turba i legami sociali e che obbliga la civiltà a un grande dispendio di energia. La Legge diviene il pilastro della civiltà, per tentare di arginare e regolare la pulsione di morte, anche se non garantisce del tutto l’ordine e la convivenza civile.

Sul finire de Il disagio della civiltà, Freud continua a domandarsi come frenare la pulsione di morte e introduce l’istanza del Super-Io. Se la sua funzione è quella di limitare, frenare la soddisfazione della pulsione di morte che si rivolge all’esterno, verso l’altro sino a farlo fuori, di fatto non è così perché la pulsione pur di soddisfarsi cambia direzione, si rivolge all’interno, verso l’Io, e l’oggetto, diviene spinta inarrestabile. L’imperativo morale mostra non solo l’esigenza acefala della pulsione, ma anche che la pulsione non vuole conoscere nulla, non ha senso, è inarrestabile talvolta “sino a morire”, “sino a uccidere”. Sempre di più ascoltiamo storie di abuso e di violenza. Si grida a gran voce che amore e violenza non sono la stessa cosa, anche se talvolta in nome dell’amore si uccide.

Nel 1948, Lacan preannuncia in modo profetico l’avvenire di un fenomeno che si mostra nella nostra società. “Più ancora, per abolire la polarità cosmica dei principi maschio e femmina la nostra società conosce tutte le incidenze psicologiche proprie a quel fenomeno moderno che è detto lotta dei sessi. Comunità immensa, al limite tra l’anarchia «democratica» delle passioni e il loro livellamento disperato ad opera del «grande calabrone alato» della tirannide narcisistica, […]è chiaro che la promozione dell’io nella nostra società sfocia […] nel realizzare sempre più l’uomo come individuo, cioè in un isolamento dell’anima sempre più prossimo all’originale derelizione”4.

Uno smarrimento generale. La follia del narcisismo della causa trionfante ha preso il posto del narcisismo delle piccole differenze. Quando il narcisismo si realizza nel passaggio all’atto, nel tu o io, non resta che il suicidio e/o la distruzione, l’uccisione dell’altro.

Si legge nei giornali, si ascolta sempre più spesso che gli uomini sono in crisi. Uomini frustrati, disorientati, spaventati, messi all’angolo, depressi, aggrediti da un femminismo violento, messi in crisi non solo dalla libertà e dall’autonomia delle donne ma anche castrati dalla sessualità femminile disinibita e aggressiva. Siamo nell’era del maschio narcisista e manipolatore e dell’amore tossico. La crisi è un effetto della guerra contro il patriarcato? L’ordine patriarcale viene meno e svanisce l’identità tradizionale dell’uomo e della donna? Oppure la crisi è un momento opportuno per ripensare, rimodulare una nuova identità dell’uomo e della donna alla luce dei mutamenti che hanno messo in questione i modelli relazionali tra i sessi, i ruoli nella sessualità, i codici della seduzione, la percezione dei corpi?

Si è sempre cercato di assegnare un posto alla donna: madre, moglie, figlia, sorella, amante, prostituta… ma la donna è sempre strutturalmente “fuori posto” e la si colpisce ogni volta che non si fa trovare lì dove l’Altro la posiziona. La violenza, l’odio e il disprezzo si palesano ogni volta che una donna non si fa trovare là dove un uomo la posiziona nel suo fantasma inconscio.

La psicoanalisi ci insegna che nel noi del patto amoroso non c’è complementarietà, reciprocità, fusione, ma asimmetria, incomprensione, spaccatura. La disarmonia strutturale tra i sessi, rende impossibile fare Uno. L’essere parlante è abitato da una faglia che lo rende malato, vale a dire che “niente può colmare né guarire la distanza tra un sesso e l’altro, che ognuno in quanto sessuato si trova isolato rispetto a quello che da sempre si è voluto considerare il suo complemento”5. Per questo Lacan potrà dire “non c’è rapporto sessuale”. La violenza è un tentativo estremo di fare Uno, ossia di far esistere e consistere “il rapporto sessuale”.

Una politica orientata dalla psicoanalisi introduce una dimensione etica che mira alla singolarità e oltrepassa la logica universale vittima-carnefice. Ogni storia di violenza è singolare. Ogni incontro con un uomo che ha agito violenza si fonda sul principio freudiano “aprire la porta del dire per arrestare l’agire”. Si tratta dunque di un ascolto che mira non solo a reperire le coordinate inconsce che hanno prodotto il passaggio all’atto violento, ma anche a interrogare il fantasma inconscio al fine di poter soggettivare il godimento e arrestare la coazione a ripetere. Si tratta dunque di far buon uso della parola per mordere e arginare la “realizzazione della pulsione di morte”.

 

Note

1. J. Lacan, Io parlo ai muri [1972], Astrolabio, Roma, 2014, p. 151.

2 Codice Rosso (2019).

3 S. Freud, Il disagio della civiltà [1929], in Opere, Bollati Boringhieri, Torino, 1996, vol. X, p.599.

 J. Lacan, L’aggressività in psicoanalisi [1948], in Scritti, Einaudi, Torino, 1974, p.116.

J.-A. Miller, “Cose di finezza in psicoanalisi”, in La Psicoanalisi, n.58, Astrolabio, Roma, 2015, p.152.

6  J.-A. Miller, “Cose di finezza in psicoanalisi”, in La Psicoanalisi, n.58, Astrolabio, Roma, 2015, p.152.

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