Ci sono i numeri. Imponenti. La violenza di genere riempie le cronache con l’ineluttabilità dei fenomeni naturali. Stalking, violenza domestica, lesioni gravi, fino all’eliminazione fisica del ‘nemico’. Anzi della nemica. Femminicidio è termine di conio relativamente recente, che si è imposto come ormai ricorrente modo per definire la morte violenta delle donne per mano maschile. Spesso conosciuta, o addirittura intima.
La violenza matura nel legame, quasi ne fosse il lato in ombra. I numeri non lo catturano, limitandosi a descriverne la curva quantitativa. E’ dal 2020 che l’ISTAT ha cominciato a rilevare i casi di femminicidio, che negli anni precedenti erano molto aumentati. Ma a far riflettere è l’aumento del ricorso al numero di pubblica utilità 1522, con oltre 14000 chiamate nel 2023. Questo dato indica non solo l’incremento del fenomeno, ma altresì la sensibilizzazione delle vittime e il loro coraggio nel volersene liberare. Spesso sull’onda di fatti di cronaca di particolare impatto, come quello che ha visto la morte della giovane Giulia Cecchettin, divenuta la tragica icona di questa emergenza.
Ma è sotto questi epifenomeni, per dire così, che dobbiamo cercare. Qui troviamo le tracce della genesi di una violenza strisciante che ha nomi precisi: disparità, esclusione, discriminazione.
Intendiamo dire che il cuore oscuro della violenza si nasconde nella pratica di asimmetrie tollerate e in quanto tali non immediatamente percepite. Si annidano nei percorsi formativi, nella progressione di carriera, nel trattamento salariale. Ci spingiamo a sostenere che esiste un iter preciso che conduce dalla disparità alla violenza. Pur ammettendo che dalla prima alla seconda avviene una sorta di salto quantico di gravità, non c’è dubbio che la cultura della disparità alimenta e quasi legittima quella della violenza di genere.
La dignità negata è infatti il primo gradino della discesa delle donne negli inferi dell’umiliazione, della subordinazione, della cancellazione della mente e del corpo femminili.
Questo è forse il livello più radicale di analisi e dunque di intervento possibile per contrastarla: la violenza si nasconde nell’ovvietà culturale, nei meccanismi spesso involontari (inconsci?) che consentono e tollerano il gender gap. Un dato di cultura giustificato da una condizione di natura.
L’ovvio è il nemico del bene. La prima azione educativa da compiere per eliminare la violenza di genere consiste nello svelamento dei meccanismi nascosti di cui si nutre, ovvero nelle forme dell’economia, dell’organizzazione sociale, delle relazioni quotidiane. Non va taciuta la difficoltà di intervenire in particolare su quest’ultimo campo. Qui infatti troviamo la dimensione privata dei mondi vitali, rispetto alla quale la libertà delle scelte confligge con la loro rilevanza sociale.
Si tratta allora di agire sul piano educativo, ritenendo che questo non coincida con gli anni della formazione ma investa processi permanenti nel corso dell’intera vita. Occorre un’azione costante di tutta la comunità per risvegliare all’inizio e in itinere la consapevolezza degli automatismi mentali da cui scaturisce la disparità tra uomini e donne. Negli adulti e nei giovani, in ordine alla materialità dei rapporti di produzione (anzitutto nel lavoro) e alla simbolicità dei rapporti di riproduzione sociale.
La violenza è infatti l’atto finale di una lunga serie di sopraffazioni, misconoscimenti, ingiustizie che mirano a indebolire il senso di sé e l’autostima delle donne. Le quali spesso sono indotte a divenire le agenti inconsapevoli della loro stessa autoemarginazione. Il mondo dell’informazione e dei social ha in questo una indubbia responsabilità nel veicolare stereotipi e modelli di genere che perpetuano, magari in forme ‘aggiornate’, immagini fuorvianti e distorcenti. Sia sul versante femminile, nel segno della sottomissione, sia su quello maschile, nel segno di un machismo bullista e prevaricatore.
E’ dunque un intreccio complesso di azioni e reazioni, di introiezione e accettazione quello che conduce le relazioni tra i generi ad un progressivo degrado, trasformando una “fratellanza inquieta”, come suggestivamente intitola un suo libro Nadia Fusini, parlando delle relazioni tra uomini e donne, in un conflitto aperto. Proprio perché nascosto nell’ovvietà culturale il germe della violenza cresce indisturbato, tra atti di giustizia mancati e conati riparativi falliti. Quando e da dove comincia a crescere questa mala pianta?
Molto presto. I primi anni sono certo decisivi per un’ educazione sentimentale che abiliti a rapporti rispettosi dell’alterità. A partire da quell’alterità che abita gli stessi individui, come complessità dell’umano che aspira all’unità e all’integrazione delle differenze anzitutto nel soggetto. Ci riferiamo alla coltivazione e al riconoscimento di una ‘controparte’ femminile e maschile che articola l’identità. Non intendiamo con questo allinearci alle posizioni di quanti propugnano uno ‘stato liquido’ della differenza sessuale, che a nostro avviso non risolve il problema dei conflitti, ma li scioglie in un indistinto.
La ‘differenza’ non va negata, ma radicalmente accettata nella sua umana creatività e fecondità di incontro. Soprattutto va distinta dagli stereotipi culturali che la irrigidiscono e la traducono in forme asimmetriche di relazionalità, materiali e simboliche.
Una pratica non gerarchica delle differenze è l’obiettivo da realizzare nella storia. Che coniughi insieme uguaglianza e differenza, nel segno della equivalenza dei generi, sulla base della dignità dell’essere umano.
Concretamente rispecchiata nei percorsi formativi, lavorativi, sociali.
Si tratta di una battaglia di civiltà, della quale il contrasto alla violenza di genere, realizzato nei modelli educativi proposti e praticati, costituisce la precondizione e il frutto maturo.
Non è tollerabile l’andamento endemico dei fenomeni discriminatori e violenti a danno delle donne. In questo senso è impreciso lo stesso termine di ‘emergenza’ che spesso viene usato per indicarli. A meno che con esso non si voglia intendere l’emersione di un sottosuolo patriarcale duro a dissolversi. Non ci appassiona la vexata quaestio attorno al patriarcato, al suo stato di salute attuale. Se è finito o vivo e vegeto. Ci sembra innegabile che il permanere della violenza (di qualunque grado e a qualunque livello) contro le donne, in carne e ossa, sia un segnale incontrovertibile di un dominio maschile che nega la loro libertà e dignità. Impedendo la stessa fioritura di una relazionalità ‘altra’ che tra donne e uomini apra inedite possibilità di riconoscimento, accoglienza, fratellanza.
Per una civiltà dell’umano realmente e concretamente compiuta.
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