Il problema numero uno per l’Italia dopo la debole ripresa post crisi finanziaria globale è quello del lavoro. Come ben sappiamo, e come la stessa Banca Centrale Europea ha recentemente ricordato, la questione va ben oltre il tasso di disoccupazione medio del paese che, pur essendo allarmante, non dice tutto. Enormi le differenze tra aree geografiche con la piena occupazione del Trentino Alto Adige e i tassi di disoccupazione (soprattutto giovanile) elevatissimi in Calabria e in genere nel Mezzogiorno. Ma l’area del disagio come sappiamo si estende oltre questo indicatore incorporando anche gli inattivi (coloro che non cercano lavoro perché sono scoraggiati e non sperano di trovarlo) e gli “involuntary part timers” ovvero chi lavora per poche ore o pochi giorni al mese o all’anno.
Molti lavori sono inoltre pagati in modo insufficiente per via della pressione competitiva dei lavoratori a basso reddito e dell’automazione e dunque abbiamo assistito, negli ultimi tempi, alla nascita di una categoria un tempo sconosciuta, quella dei “work poor”, ovvero dei lavoratori poveri. La situazione del lavoro è così radicalmente diversa rispetto ai tempi dei nostri genitori da far affermare argutamente in occasione della scomparsa di Paolo Villaggio che Fantozzi, con famiglia, utilitaria e posto fisso, era in fondo un uomo di successo.
Per risolvere un problema bisogna innanzitutto capirlo. Di fronte alle sofferenze in materia di lavoro e di povertà la reazione, pur comprensibile, mira spesso al bersaglio sbagliato. Gli uomini sono cercatori di senso e vanno subito alla caccia di untori, ovvero di una risposta facile rappresentata da un nemico facilmente identificabile che, una volta sconfitto, ripristina la soluzione ideale. Gli untori dei nostri giorni sono stati via via identificati nell’euro, negli immigrati che arrivano sulle nostre coste, nei politici e i loro privilegi con la riduzione dei costi della politica che è diventato il nuovo oppio dei popoli, anzi dei populisti.
Bisogna avere il coraggio di dire e di spiegare che il problema è ben più complesso.
Un’intervista molto bella ai due massimi esperti di automazione nel mondo, i colleghi Brynjolfsson e McAfee ci aiuta ad inquadrare la questione. La quarta rivoluzione industriale sta cambiando radicalmente lo scenario. L’innovazione è frenetica e con essa i tassi di creazione e distruzione di posti di lavoro. Il lavoro va “clessidrizzandosi” come ci ha ricordato recentemente l’Istat, ovvero si riduce la classe media per la riduzione di alcuni tipici lavori di ufficio che possono svolgere le macchine. Restano a monte i creativi in grado di innovare, di padroneggiare e sfruttare a proprio vantaggio le nuove tecnologie aumentando la propria produttività. E resta a valle una nuova serie di basse qualifiche come quelle dei fattorini digitali, dei braccianti agricoli.
Per vincere la nuova sfida del lavoro siamo partiti come Settimane Sociali prima di tutto dall’analisi di questi problemi e dalla raccolta delle buone pratiche. Identificando almeno 400 realtà del paese che stanno rispondendo con successo alla sfida. Il fattore comune di tutte le risposte sta nell’identificare fattori competitivi che consentono al nuovo lavoro di vincere la sfida con la macchina e con il lavoro a basso costo. Per sintetizzare quello che stiamo verificando sul campo esistono tre livelli di risposta: quello macroeconomico, quello del sistema paese e quello micro (per imprese e lavoratori).
Sul primo fronte la questione è molto semplice. Con la rivoluzione 4.0, come osservano correttamente Brynjolfsson e McAfee si realizza il grande disallineamento tra produttività e redditi. La produttività che cresce non porta più in alto i redditi della classe media e bassa. E, parallelamente, la quota dei salari sul PIL è in declino in quasi tutti i paesi del mondo mentre cresce quella del capitale. Quello che accade è che le nuove tecnologie aumentano la ricchezza creata a livello mondiale ma la distribuiscono molto peggio di prima perché una parte crescente di essa è appannaggio dei proprietari delle macchine. E se c’è bisogno di meno lavoro umano per produrre, una quota minore della ricchezza prodotta va ai lavoratori.
La risposta macroeconomica fondamentale dunque è un mix di politiche monetarie espansive(l’inflazione non può crescere in questo contesto anche con bassi tassi di disoccupazione) e di politiche fiscali redistributive che riescano a tassare la nuova ricchezza creata e a redistribuirla per trasformarla in potere d’acquisto diffuso. Tassare a livello internazionale i grandi proprietari di tecnologie, combattere l’elusione fiscale diventa dunque fondamentale assieme alla creazione di una rete di protezione (un reddito d’inclusione attivo) che spinga chi è ai margini del mercato del lavoro a rientrarvi offrendo le risorse per l’opportuna riqualificazione.
La risposta a livello di sistema paese ce la suggerisce l’affresco delle 400 buone pratiche trovate nei nostri territori. L’Italia –che-ce-la-fa è un mosaico composto da una spina dorsale di imprese manifatturiere (che fanno del nostro paese il sesto esportatore mondiale) che hanno puntato sulla qualità e sulle nuove tecnologie per restare competitive e da un insieme di imprenditori che sanno valorizzare il genius loci, il tesoro inestimabile dei nostri territori. Siamo infatti il paese con il maggior patrimonio artistico, storico e culturale del mondo e con la maggiore biodiversità naturale in Europa che si traduce in diversità enogastronomica.
Accanto a questi settori si conquistano uno spazio sempre maggiore ambiti come la sanità, il socio-assistenziale dove la cooperazione sociale gioca un ruolo importantissimo. L’Italia che ce la fa chiede essenzialmente meno ostacoli all’attività d’impresa pensando soprattutto a costi e tempi della burocrazia, ai tempi della giustizia civile, ai ritardi sulla banda larga e ai costi dell’energia e alla riduzione della fiscalità sul lavoro.
In cosa siamo e continueremo ad essere superiori alle macchine? Per Brynjolfsson e McAfee almeno in tre ambiti: innovazione, relazioni interpersonali e destrezza. Tutto questo può e deve orientare anche le scelte formative dei nostri ragazzi. Sempre più importante sarà non tanto saper svolgere mansioni routinarie quando avere capacità di soluzione dei problemi, di parlare in pubblico. Insomma qualità nelle relazioni interpersonali assieme a resilienza ed integrità morale.
Quelle che oggi chiamiamo competenze e soft skills saranno più importanti dei voti presi agli esami. E molte di queste virtù fondamentali per il mondo del lavoro contemporaneo si sono tradizionalmente costruite e formate negli ambienti di formazione cattolici come oratori, gruppi di animazione giovanili, gruppi scout. Se affiancheremo ad esse il gusto e l’allenamento all’innovazione avremo completato il quadro.
Per farlo dobbiamo fare anche uno sforzo culturale in una tradizione che per troppo tempo ha considerato meritoria solo la redistribuzione e non la creazione di valore economico. Per redistribuire il valore economico bisogna innanzitutto crearlo. Come abbiamo detto in principio redistribuirlo oggi è imprescindibile pena l’insostenibilità sociale di questa fase dello sviluppo. Ma educare sempre più giovani a crearlo vuol dire aumentare il potenziale generativo del paese e la capacità di costruire un futuro per i nostri figli.
A Cagliari il viaggio di tanti cittadini alla ricerca delle migliori pratiche del paese si concluderà in una proposta politica per il paese e per l’Europa che cercherà di valorizzare il tesoro di esperienze realizzate nell’ottica del bene comune
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[…] con Leonardo Becchetti (Economista e membro del Comitato Scientifico e Organizzatore delle Settimane Sociali dei […]