La rivoluzione digitale tocca il rapporto tra tecnologia, uomo e società. Se la fabbrica del XX secolo conservava al lavoro una dimensione collettiva, con una stretta correlazione tra spazio e tempo, oggi questo legame si sta affievolendo. Questi cambiamenti chiedono al sindacato di affrontare nuove sfide uscendo dalla chiacchiera generica per entrare nel merito dei problemi.

Semplificando un po’, ma non troppo, possiamo dire che il Novecento e buona parte dell’Ottocento sono stati i secoli del lavoro. Il lavoro ha occupato le migliori menti, ha interessato economisti, filosofi e sociologi, ha ispirato poeti ed artisti. In nome del lavoro i popoli hanno lottato, sperato, sognato, fatto rivoluzioni.

Al lavoro, inoltre, dobbiamo un rapporto intimo con la nostra identità e il nostro essere nella società. Non a caso ogni volta che facciamo conoscenza con una personale la prima domanda è “Che lavoro fai?”, anzi il “Che fai?” sottende, una domanda su quale sia la tua occupazione. Ciò significa che connessa al lavoro c’è la questione della nostra identità: identità non solo personale, ma anche di gruppo. Questo riflesso comunitario non va dimenticato perché serve a metterci in guardia contro ogni riduzionismo, contro ogni economicismo che identifica il lavoro come una merce pura e semplice da scambiare sul mercato contro un salario.In realtà, negli ultimi 30 anni, giornalisti, intellettuali, hanno dimenticato la questione lavoro, riscoperta in modo forzoso a causa della crisi ma senza che si risvegliasse, analogamente la curiosità di capire, cosa fosse accaduto durante questo black-out di attenzione. Questa coda di narrazione del lavoro risente di una stantia ideologizzazione, che rappresenta un comodo caliedoscopio che priva di ogni lucidità e attinenza con la realtà.

Il problema della tecnologia si inserisce in questo contesto. Oggi, nonostante una parte del Paese e dell’intellighenzia poco informata o strumentale veda nei cambiamenti indotti dalla digitalizzazione addirittura il rischio della “fine del lavoro”, un sindacato che non vuole perdere aderenza con la realtà ha il dovere di riaffermare una visione del lavoro non materialista. E di respingere come false utopie alcune teorizzazioni che puntano a stabilire un’incompatibilità di fondo tra progresso tecnologico e contributo della persona. E’ il caso del reddito di cittadinanza, che qualche guru della Silicon Valley vorrebbe eleggere a perno di un nuovo welfare in cui il 90% delle persone verrà pagato per non lavorare, per stare a casa ad osservare da dietro le finestre il restante 10%. Papa Francesco ci ha ricordato che: “l’individuo si fa persona quando si apre agli altri, alla vita sociale, quando fiorisce nel lavoro. La persona fiorisce nel lavoro. Il lavoro è la forma più comune di cooperazione che l’umanità abbia generato nella sua storia. Ogni giorno milioni di persone cooperano semplicemente lavorando: educando i nostri bambini, azionando apparecchi meccanici, sbrigando pratiche in un ufficio… Il lavoro è una forma di amore civile: non è un amore romantico né sempre intenzionale, ma è un amore vero, autentico, che ci fa vivere e porta avanti il mondo”.

Altrimenti si finisce però col dimenticare che il lavoro è qualcosa di più di un’occupazione: c’è una dimensione spirituale, etica e sociale dell’uomo che non può ridursi al solo reddito (che, beninteso, resta pur sempre un attributo fondamentale). C’è uno spazio di lavoro e di nuovo lavoro che le persone riempiranno sempre con la loro energia insostituibile. Uno spazio di realizzazione, di dignità. Piuttosto che disegnare tragici scenari del futuro non è meglio lavorare su cosa serve già oggi e nel presente ai lavoratori? 

L’idea di una Repubblica, di una democrazia fondata sui sussidi non ci piace. L’accostamento a San Francesco e ai francescani di quella proposta grida vendetta, come ci ricorda Luigino Bruni.

Per questo serve individuare percorsi nuovi, interrogarsi rispetto al cambiamento in atto, mettendo in campo la nostra intelligenza e fantasia. Leggere con le lenti novecentesche o con la sovrastruttura ideologica che ha contraddistinto il ‘900 la rivoluzione digitale significa mettersi sulla difensiva, pensare di fermare con le mani l’acqua di un fiume in piena. Oggi quello che serve al sindacato, ma non solo al sindacato, è una rinnovata capacità progettuale: dobbiamo aprire cantieri partecipativi con tutti i soggetti coinvolti, tenendo insieme la dimensione umana del lavoro e usare la tecnologia per avvicinare di più il lavoro alla vita delle persone riportandole al centro.

La rivoluzione digitale tocca il rapporto tra tecnologia, uomo e società. Se la fabbrica del XX secolo conservava al lavoro una dimensione collettiva e faceva in una stretta correlazione tra spazio e tempo il terreno su cui organizzarlo, oggi questo legame va via via affievolendosi. Le nuove modalità lavorative rese possibili dalle tecnologie rendono sempre più sfumato il rapporto tra spazio, tempo e lavoro. Con la quarta rivoluzione industriale tecnologie come i robot autonomi, la realtà aumentata, il cloud computing, i big data e analitica, la sicurezza informatica, l’internet delle cose industriali, l’integrazione dei sistemi orizzontali e verticali, la simulazione e produzione additiva – già ampliamente implementate singolarmente in un modo o nell’altro – confluiranno nel modello Industry 4.0 e troveranno una loro integrazione a livello industriale. Cambierà il concetto stesso di impresa, e con esso le città e le comunità. Si profila un ecosistema 4.0 in cui tutto è interconnesso, in cui mobilità, energia, processi, città necessiteranno di una rigenerazione urbana. Ciò impone che anche i lavoratori siano coinvolti, che partecipino in modo consapevole alla trasformazione dell’impresa e del lavoro.

L’Italia si è mossa con un certo ritardo sul terreno di Industry 4.0. Tuttavia, dopo non poche titubanze, il governo si è messo al passo con i partner europei e con le più importanti esperienze internazionali approvando il piano Calenda, che prevede un massiccio ricorso agli incentivi fiscali (13 miliardi) per consentire alle imprese italiane di dotarsi delle tecnologie abilitanti di Industry 4.0, ma anche una forte spinta sul versante delle competenze e della ricerca attraverso la creazione dei Competence Center, al cui centro stanno le eccellenze universitarie italiane nel campo della ricerca e della tecnologia, e dei Digital Innovation Hub. Sui primi la Fim ha condotto insieme ad Adapt uno studio mirato che ha portato alla pubblicazione di un Libro Verde, cui seguirà poi un Libro Bianco dedicato al tema dei cambiamenti indotti da Industria 4.0 sul lavoro (il cosiddetto Lavoro 4.0).

Dietro queste iniziative c’è l’idea che il lavoro si trasforma ma non si esaurisce. Certo, per governare le grandi trasformazioni serve un investimento non solo sulle tecnologie, sull’hardware, ma anche sulle persone, sul software. Ecco perché con il contratto nazionale dei metalmeccanici abbiamo introdotto il diritto soggettivo alla formazione. Siamo cioè consapevoli che il miglioramento continuo delle proprie competenze vale oggi per il lavoratore quanto il diritto alla sicurezza o alla salute. Per questo insistiamo nel dire che l’alternanza tra scuola e lavoro deve stare al centro del nostro sistema formativo e che il contratto di apprendistato deve diventare la forma principale di accesso al mercato del lavoro.

Cruciale è anche il ruolo della contrattazione, ovviamente. Con il nuovo contratto dei metalmeccanici firmato, abbiamo finalmente risolto l’ambiguità che esisteva tra il primo e il secondo livello contrattuale. La ricchezza verrà distribuita in azienda, cioè laddove si crea, e gli incrementi salariale rifletteranno gli incrementi di produttività. Fermo restando, naturalmente, il ruolo del contratto nazionale, cui è demandato l’adeguamento dei salari al costo della vita e, più in generale, la funzione di quadro regolatorio generale. L’estensione della contrattazione aziendale è ancora piuttosto limitata, anche se nel settore metalmeccanico interessa circa il 70% dei lavoratori. Il problema riguarda soprattutto le piccole e medie imprese. Per uscirne, la Fim da tempo propone la via della contrattazione territoriale, senza trovare molto ascolto in una controparte che resta abbarbicata ad una logica centralista delle relazioni industriali.

Credo che l’approccio pragmatico sia quello giusto, lontano da vecchie e nuove ideologie. Perché sappiamo per esperienza che nella fabbrica del futuro l’uomo conterà di più, non di meno. Lo dimostra già oggi l’esperienza del World Class Manufacturing maturata a Pomigliano e negli atri stabilimenti Fca, che la Fim ha posto al centro della più grande inchiesta operaia degli ultimi trent’anni. Il Wcm, questa nuova metrica del lavoro che valorizza l’ingaggio cognitivo dei lavoratori e i loro suggerimenti, provoca sì più stress – così come emerge dalla nostra ricerca – ma amplia anche le possibilità dei lavoratori di divenire coprogettisti, non semplici esecutori come nella vecchia fabbrica fordista. Questo significa che aumentano di pari passo gli spazi di partecipazione, a patto di saperli vedere ed interpretare. Il sindacato che serve, e che servirà ancor di più con Industry 4.0, è un sindacato che esce dalla chiacchiera generica ed entra nel merito dei problemi, che prima di parlare studia. 

C’è poi un altro terreno di sfida per il sindacato che consiste nella capacità di dare rappresentanza a tutte quelle forme di lavoro legate alla tecnologia del blockchain. Certo, se pensiamo di poter ingabbiare queste nuove forme di lavoro in una categoria giuridica classica, come quella del lavoro autonomo o del lavoro subordinato, facciamo un errore. Asfaltare le startup non è una soluzione, come non lo è eliminare i voucher. I lavoratori della Gig economy come quelli di Foodora sono come i vecchi pony express, ma sono ‘ gestiti ‘ attraverso una app. La Gig economy non occupa, ancora, grandi quantità di lavoratori, si tratta di un modello economico sempre più diffuso dove non esistono più le prestazioni lavorative continuative (il posto fisso, con contratto a tempo indeterminato) ma si lavora “on demand”, cioè solo quando c’è richiesta per i propri servizi, prodotti o competenze, su “chiamata” gestita online da una piattaforma o una App.

Chi lavora sulle piattaforme o nella Gig economy non sempre rispetta orari standard, spesso lavora di notte. Il luogo di lavoro non è fisso, non è necessario essere in azienda, si può scegliere liberamente il luogo più consono all’attività che si svolge. Con la Gig economy cambiano le modalità di lavoro, le relazioni si intrecciano sulla rete e spesso non si conosce il datore di lavoro.

Per valutare come si sposterà il valore del lavoro dentro la nuova catena del valore è importante avere il coraggio e la capacità di scrivere su un foglio bianco. Le lenti del ‘900 non aiutano a capire molto. Se osserviamo tutto con il dito pronto sul tasto “sfruttamento” per catalogare tutto ciò che a fatica riusciamo a incanalare fuori dalle tradizionali categoria di “lavoro dipendente” o “autonomo”, non faremo grandi sforzi interpretativi. Il lavoro che emerge si configura sempre più come un “progetto”, di diverso valore e portata. Non so quanti lavoratori della Gig economy vi saranno in futuro, so solo che le app, il digitale cambieranno tutti i lavori.

Solo chi saprà giocare d’anticipo, accettando la sfida della sostenibilità sul campo, nella progettazione delle nuove architetture economiche, industriali e sociali, potrà orientare il mondo del lavoro verso la centralità della persona. Altrimenti parteciperemo al coro dei “denunciatori dei rischi”, anch’essi utili, ma innocui rispetto ad una partita sull’ estensione delle opportunità per tutti.

Per il sindacato, a cambiare è lo spazio organizzativo, che diventa anche digitale. E allora come intercettare il nuovo lavoro, sempre più frammentato? Non certo con le sole assemblee, come nelle medio grandi fabbriche: dovremmo pesare a delle “app” ad hoc e monitorare i social network, dove questi ragazzi si parlano, e lavorare su forme organizzative e comunicative del tutto nuove. Il lavoro del futuro si configura sempre più come un progetto, con un legame di reciprocità tra chi lo chiede e chi lo svolge, dove la fiducia è l’architrave sui cui poggiano anche una serie di nuove tecnologie.

In un momento in cui tutti vogliono liberarsi del lavorola nostra battaglia è quella di far sì che le persone si liberino nel lavoro. Perché, come dice Papa Francesco, bisogna fare in modo che la persona fiorisca nel lavoro. La tecnologia può essere una occasione che aiuta l’umanizzazione del lavoro. Ci sono lavori in cui di umano c’è assai poco, non li rimpiangeremo, soprattutto se porteremo l’umanità verso un lavoro migliore e realmente realizzativo.

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  1. […] Per Marco Bentivogli (Segretario generale FIM-CISL) “la rivoluzione digitale tocca il rapporto tra tecnologia, uomo e società. Se la fabbrica del XX secolo conservava al lavoro una dimensione collettiva e faceva in una stretta correlazione tra spazio e tempo il terreno su cui organizzarlo, oggi questo legame va via via affievolendosi”. In questa prospettiva deve cambiare anche il ruolo delle parti sociali. […]

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