Non c’è dubbio che il tema della digitalizzazione abbia contribuito a rimettere al centro quello del lavoro. Molto spesso però i due fronti sono stati affiancati come stessi lati di una calamita che si respingono, come se l’aumento di uno implicasse l’automatica riduzione dell’altro. Complice di questa visione sensazionalistica è stata anche una certa pubblicistica che ha basato il suo successo sull’allarmismo provocato dai propri risultati. Si è così diffusa la vulgata che l’Industria 4.0 altro non fosse che un concetto altisonante utile per indorare la pillola di una massiccia perdita di posti di lavoro. Negli ultimi tempi però diverse analisi stanno contribuendo a riportarci alla realtà.
Questo non significa rispondere agli allarmi apocalittici con un altrettanto esagerato ottimismo cieco, quanto piuttosto riconoscere che non siamo di fronte ad un fenomeno caratterizzato unicamente dalla distruzione, quanto soprattutto dalla trasformazione. In effetti la sfida di un ricercatore oggi dovrebbe essere quella di passare dall’affermazione “la tecnologia distrugge lavoro” a “la tecnologia distrugge lavori, trasformando il lavoro”. Sembra poco ma tutto si racchiude in questa piccola differenza sostanziale. Che le professioni siano state rese obsolete dall’avvento di tecnologie che, in particolare relativamente all’utilizzo della forza fisica, potevano sostituire con strumenti meccanici il lavoro umano non è certo una novità.
Così come non è una novità il calo della percentuale di lavoratori occupati nel settore industriale, costante in Italia dal 1980 e già dagli anni Cinquanta negli Usa. Recentemente uno studio OCSE ha mostrato come, a differenza di altri studi che prevedevano l’elevato rischio di scomparsa per la metà delle professioni attuali, il rischio di totale eliminazione riguardi il 9% dei lavori mentre percentuali molto maggiori (circa il 35%) sarebbero quelle che andranno incontro ad una profonda trasformazione derivante dall’automazione di determinate mansioni al loro interno.
Non sono poche le evidenze empiriche sul passato né le previsioni sul futuro disponibili che mostrano come la tendenza sia stata e probabilmente sarà quella di una trasformazione e una sostituzione. La differenza con il passato si dovrebbe riscontrare in due elementi: da un lato tempi di sostituzione molto più rapidi, dall’altro la potenzialità di sostituire attività un tempo considerate un porto sicuro in quanto non-routinarie e a forte valore aggiunto intellettuale. A fronte di questo scenario probabile il concetto stesso di Industria 4.0 acquista un valore particolare. Infatti, sebbene nato come strategia di politica industriale tedesca, questo ha il merito di aver inquadrato il tema della digitalizzazione dal punto di vista dei cambiamenti strutturali dei modelli di business, delle logiche di produzione e di consumo, e quindi delle modalità di lavoro. Inteso all’interno di un contesto più generale il fenomeno tecnologico innanzitutto acquista il proprio spazio all’interno di una complessità di fattori che spesso vengono dimenticati, come quello del contesto internazionale e quello demografico. Inoltre risulta più semplice abbattere muri e confini propri di un modello di impresa novecentesco che incideva non poco nel pensare e organizzare il lavoro.
Il lavoro in questo contesto sembra acquistare un valore differente a seconda dei modelli produttivi che si sviluppano. La digitalizzazione dei processi accresce, come ormai avviene dagli anni Settanta, la componente intellettuale della prestazione e con essa qualifica in tal senso le professionalità richieste. L’evoluzione degli occupati in Italia mostra come nel corso degli ultimi quindici anni siano le professioni intellettuali, più ancora di quelle tecniche specializzate, ad essere cresciute parallelamente ad una diminuzione del numero degli operai.
Questo richiede rapide e precise azioni di riqualificazione e formazione continua per poter adattare la forza lavoro ai nuovi processi. E proprio su questo aspetto emerge una delle caratteristiche più interessanti della trasformazione contemporanea. Se infatti le tecnologie si evolvono molto rapidamente, con essere aumenta il rischio di obsolescenza di competenze fino a poco tempo prima fondamentali. Ciò fa sì che una eccessiva attenzione sull’iper-specializzazione della forza lavoro, in particolare di quella in entrata che si riflette sui contenuti della didattica nei percorsi formativi, rischi di generare un effetto negativo. Risulta infatti più importante la capacità di adattamento e di apprendimento di nuovi processi che nel corso del tempo si affermano rispetto alla conoscenza dettagliata di strumenti che in pochi anni scompaiono. In questo senso sia le preferenze delle imprese che le indagini scientifiche mostrano come l’esigenza sia quella di soggetti integrali piuttosto che di specialisti. Lo scenario di complessità che Industria 4.0 rappresenta in modo efficace esige soggetti in grado di sapersi orientare all’interno di tale complessità, e questo riguarda sia la gestione dei processi ma anche dimensioni più personali come la gestione di tempi e luoghi di lavoro all’interno di una dimensione che rischia di fagocitare le persone all’interno di un circolo di iper-connessione costante.
La formazione dei giovani quindi deve sì concentrarsi su quegli elementi di base necessari per potersi muovere in un mercato del lavoro in cui la tecnologia è sempre più centrale ma allo stesso tempo è necessaria una relazione costante tra ambiente di lavoro e formazione così da apprendere quelle competenze trasversali e quelle abilità che difficilmente possono essere trasferite. Inoltre studi pedagogici mostrano come l’apprendimento in situazione di compito contribuisca alla costruzione di ulteriori elementi della personalità che vanno nella direzione di un empowerment che non si riduce unicamente alla competenze ma riguarda l’intera personalità.
Sul fronte della gig-economy, sebbene poco sviluppato oggi in Italia così come all’estero (si calcolano circa lo 0,5% dei posti di lavoro negli USA), le sfide sembrano essere simili. Se infatti siamo di fronte ad una individualizzazione estrema della prestazione lavorativa, erogata a distanza e in modo semi-anonimo il rischio principale è quello di un disorientamento all’interno della sproporzione tra poteri direttivi e potere del contraente debole che porta poi ad un circolo vizioso di lavori estrematemente sottopagati e fonti di estrazione di risorse da parte delle imprese che ne fanno uso. A fronte di questo rischio, che è molto elevato, potrà sembrare utopico ma, insieme ad un sistema di tutele che è tutto da ripensare (e da costruire su basi diverse rispetto a quelle del Novecento), la sfida è quella dell’empowerment dei lavoratori, sia individualmente che collettivamente, per non essere soffocati da un sistema più grande di loro.
La sfida resta dunque quella relativa a quale mondo e quale società vogliamo costruire. Troppo spesso ci dimentichiamo che la tecnologia non è un destino ma uno strumento ed una opportunità, scaricando così su un progresso cieco ed eterodiretto (da chi non si sa) le responsabilità che sono di tutti, oggi più che mai.
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[…] Francesco Seghezzi (Direttore Fondazione Adapt, uno dei massimi esperti italiani di Industry 4.0), dopo aver osservato che rispetto all’innovazione tecnologica “non siamo di fronte ad un fenomeno caratterizzato unicamente dalla distruzione, quanto soprattutto dalla trasformazione”, sottolinea come “la sfida resta quella relativa a quale mondo e quale società vogliamo costruire. Troppo spesso ci dimentichiamo che la tecnologia non è un destino ma uno strumento ed una opportunità, scaricando così su un progresso cieco ed eterodiretto le responsabilità che sono di tutti, oggi più che mai”. […]