Con l’avvio dell’“anno sturziano” 2019 – centesimo anniversario della fondazione del Partito popolare e sessantesimo della morte di Sturzo – si sono moltiplicati in modo sorprendente gli interventi sulla sua figura, sull’“Appello ai liberi e forti” e sul Partito popolare. Si è così cominciato a parlare non più solo di Sturzo ma anche del perché si parla tanto di lui e di ciò che ha fatto. E’ il caso di Angelo Panebianco, secondo cui questo tanto parlarne “esprime il desiderio o la speranza (non ancora un progetto) di vedere rinascere, qui in Italia, un partito dei cattolici”. Ma è, a suo avviso, una “discussione poco sensata”: “la politica dell’identità cattolica è fuori tempo massimo”. Tuttavia, se i cattolici si agitano tanto intorno a Sturzo, concede Panebianco, qualche ragione sensata ci sarà. “Riguarda il modo di formazione delle classi politiche in Italia. Con tutta evidenza, la scomparsa dei partiti politici storici dei primi anni novanta, ha fatto scomparire anche sedi e canali mediante i quali venivano ‘allevati’», educati, i futuri politici”. Davanti a questo buco nero qualcuno ha pensato: “se non ci sono più i partiti storici a formare le classi politiche, perché non rivolgersi alle istituzioni ecclesiali?”. Naturalmente anche questa è una sciocchezza: è la scuola che deve formare i futuri politici (sia pure reimpostando “in chiave rigorosamente meritocratica il nostro sistema educativo”).
Ora delle due l’una: o la scomparsa dei partiti novecenteschi – di massa, radicati nel territorio, organizzati in modo stabile, con leadership collettiva ecc. – è un problema per la democrazia o non lo è. Se lo è, fanno bene i cattolici a ricordare Sturzo e ad esprimere il desiderio o la speranza di vedere rinascere un partito (non dei cattolici ma di cattolici: Panebianco ignora un po’ troppo disinvoltamente tante discussioni sull’aconfessionalità del Ppi). Se non lo è, invece, stanno sbagliando tutto. Curiosamente, però, per questo politologo liberale la scomparsa dei partiti novecenteschi non è un problema, ma un mezzo problema. Lo è, perché sono venuti meno i canali di formazione dei futuri politici. Ma non lo è del tutto perché il rimedio è già bell’e pronto: non le istituzioni ecclesiali, ma la scuola, seppure reimpostata in chiave meritocratica. Peccato che la scuola ci fosse prima dell’avvento della democrazia, ci sia anche in molti paesi senza democrazia e sia sopravvissuta nei casi in cui questa è scomparsa. E se la scuola non è più meritocratica e non seleziona più la classe dirigente qualche ragione ci sarà: precisamente la stessa per cui sono venuti meno i partiti quali strumenti di selezione-formazione della classe politica. Ecco perché la scomparsa dei partiti non è liquidabile come un mezzo problema: la loro fine e la trasformazione della scuola coincidono con la crisi stessa della democrazia.
Il fatto è che Panebianco non ha problemi solo con i cattolici ma anche con la democrazia. La selezione-formazione della classe politica – i due processi sono indivisibili – non è un compito accessorio dei partiti, facilmente sostituibili in tale compito con istituzioni scolastiche. E’ la sostanza stessa della democrazia rappresentativa. Che cos’è, infatti, quest’ultima se non la selezione dei migliori da parte del popolo? Si è aperto una grande “questione democratica” proprio perché scomparsi i partiti – e con loro molti altri corpi intermedi – è venuto meno lo strumento per creare democraticamente una classe politica. Il sottinteso del ragionamento di Panebianco – e di tanti altri liberali come lui – è che, perché ci sia democrazia, sono sufficienti libere elezioni e per queste non sono necessari i partiti: bastano cartelli elettorali, movimenti di opinione, piccoli gruppi organizzati o anche singoli individui. Ecco perché, ai suoi occhi, la scomparsa dei partiti è solo un mezzo problema. Ma le libere elezioni, di per sé, non selezionano né tantomeno formano una classe politica adeguata o una classe dirigente competente. E senza questa selezione-formazione da parte del popolo si interrompe il circolo virtuoso – dal basso verso l’alto e viceversa – della democrazia. Parliamo oggi di crisi della democrazia rappresentativa proprio perché – in Italia e altrove – non si avverte più in modo stringente la necessità di questo circolo virtuoso.
Cominciamo dal suo scopo principale: scegliere le persone adatte a governare e cioè a guidare le istituzioni pubbliche per sostenere il sistema-paese. Negli ultimi decenni, il ruolo degli Stati nazionali si è progressivamente indebolito e gli Stati non sono più in grado di determinare la vita dei loro cittadini come facevano in passato. Il loro potere è stato eroso dal basso, ad opera di cittadini sempre più esigenti, critici e sfiduciati, e, soprattutto, dall’alto, ad opera di grandi imprese transnazionali, gigantesche lobby finanziarie, Stati più forti e aggressivi ecc. Tutto ciò rende molto meno importante il governo della politica nazionale. Ecco perché scegliere i migliori non appare più una necessità stringente. Naturalmente, è un ragionamento in gran parte sbagliato: benché indeboliti, gli Stati nazionali restano attori importanti nel modo contemporaneo. Ma è un fatto che negli ultimi anni abbiamo smesso di votare per i più adatti a governare – o almeno per quelli che riteniamo tali – e abbiamo cominciato a eleggere i più ricchi, i più famosi, i più cliccati ecc.
Poi siamo passati ad eleggere quelli come noi, quelli che ci somigliano di più: uomini e donne della strada senza particolari competenze o virtù. Infine ci stiamo avviando all’elezione casuale, per estrazione, dei cosiddetti rappresentanti del popolo e/o verso la loro marginalizzazione e uno sbocco autoritario. Ma alla fine di questo processo disgregativo il popolo – inteso come comunità che si prende cura del suo interesse collettivo e persegue il bene comune – esisterà ancora? Con buona pace dei populisti che si riempiono la bocca con questa parola, il loro successo è direttamente proporzionale alla disgregazione del popolo, il soggetto da cui in democrazia dovrebbe emanare il potere, insomma il titolare della sovranità. Il populismo, in altre parole, è direttamente correlato al tramonto della democrazia. Senza che i liberali alla Panebianco facciano molto per difenderla.
Dunque, i cattolici non hanno tutti i torti a tirare fuori dalla soffitta Luigi Sturzo. Toltagli di dosso la polvere del tempo, infatti, il suo Partito popolare di cento anni fa pone a noi oggi un problema di drammatica attualità: come si costruisce una democrazia senza partiti? Da quando in Italia sono scomparsi i partiti di massa novecenteschi – all’inizio degli anni novanta – non abbiamo ancora trovato una risposta convincente a questa domanda, malgrado tanti discorsi su una improbabile democrazia degli individui. Desiderare e sperare che nascano uno o più nuovi partiti politici è perciò del tutto comprensibile, ragionevole e, direi, giusto. Il punto è un altro: se le cose stanno così, se la democrazia è in pericolo o, peggio, se sta già tramontando, non basta desiderare e sperare. Bisogna anche fare. Invece, malgrado centinaia di interventi commemorativi su Sturzo, non si vedono segni concreti di nuovi partiti cattolici o di nuovi partiti tout court.
Se i cattolici italiani hanno oggi una colpa, è proprio questa: parlare senza fare. Si dirà: non è possibile resuscitare i partiti novecenteschi oppure non è opportuno o, addirittura, è sbagliato. Contro-obiezione: può darsi che sia così, ma allora che si fa? Quale alternativa ai partiti è possibile mettere in campo oggi? E se non si sa che cosa rispondere in concreto a queste domande, non sarebbe meglio uscire dalla nostalgia e dagli amarcord che hanno circondato in questi mesi la memoria di Sturzo e trasformare tale memoria nella base di una lucida presa di coscienza e in una denuncia esplicita della probabile fine della democrazia? Per attrezzarsi quantomeno a vivere in un mondo dopo la democrazia.
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