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Il Sud odierno ha livelli di benessere incomparabilmente superiori a quelli degli anni ’40. Tuttavia, il gap con il Centro-Nord è ancora fortissimo. Una parte della visione contenuta nell’Appello si è tradotta in realtà, è riuscita a imprimere una direzione alla storia in quegli anni di ricostruzione. Ma moltissimo resta ancora da fare. Perciò alcuni elementi dell’Appello restano attuali, per il Sud, per il Paese, per un nuovo ordine mondiale

L’Appello ai liberi e forti (d’ora in avanti semplicemente Appello) viene divulgato nei primi giorni del 1919. Si è appena conclusa la Prima guerra mondiale e inizia il cosiddetto “biennio rosso”, caratterizzato da richieste di tutela economica delle classi lavoratrici e di estensione della partecipazione. Nel 1912 era stato approvato il suffragio universale maschile limitandolo agli ultratrentenni. Nel dicembre del 1918 il diritto di voto era stato esteso a chi avesse compiuto 21 anni o fosse reduce di guerra. I ceti popolari prima esclusi avrebbero potuto adesso giocare un ruolo decisivo nel Paese.

La prima parte dell’Appello è proiettata sul livello che oggi chiameremmo globale. Infatti, parla della necessità di evitare nuove guerre, della Società delle Nazioni, dei 14 punti di Wilson (che secondo Luigi Sturzo avevano elementi comuni con la lettera inviata nel 1917 da Benedetto XV ai capi dei popoli belligeranti, in gran parte cristiani), dei “supremi interessi internazionali”, di “giustizia sociale”, “disarmo internazionale”, “legislazione sociale”, “uguaglianza del lavoro”, “tutela dei diritti dei popoli deboli contro le tendenze sopraffattrici dei forti”, libertà di religione a livello planetario.

Riferendosi poi all’Italia, nella sua concisione l’Appello auspica uno Stato non accentratore bensì popolare, la cui sfera d’azione sia circoscritta dal rispetto dei “nuclei” e “organismi naturali – la famiglia, le classi, i Comuni”, e indica l’esigenza di “fermare … le correnti disgregatrici”, contrapponendovi “elementi di conservazione e di progresso”. Esso elenca poi le riforme “necessarie e urgenti”, e qui cita la “soluzione del problema del mezzogiorno”. È l’unico passo in cui si menziona il Sud. È, questo, soltanto un cenno di prammatica, da parte di un siciliano come Sturzo?

Va notato come questa frase compaia accanto ad altre riguardanti i regimi doganali, il fisco, la marina mercantile, il latifondo, la scuola e l’analfabetismo, le riforme sociali, la piccola proprietà, l’elevazione della condizione dei lavoratori, l’esigenza di incrementare la produzione, la necessità di ricostruire la comunità nazionale. Ebbene, tutti questi elementi sono, nell’analisi sturziana, strettamente intrecciati tra loro nello spiegare, per un verso, la perdurante arretratezza meridionale, e nell’indicare, per altro verso, i nodi che una politica nazionale per il Mezzogiorno dovrebbe sciogliere.

Ciò risulta evidente in scritti più ampi. Tra questi “La questione meridionale problema dell’Italia intera”, del gennaio 1923. Va detto anzitutto che, com’era già chiaro nell’Appello, anche qui un punto fermo è l’indissolubilità della Patria italiana. Sturzo, pur prete cattolico e meridionale, difende l’unità in nome sia di un generale ideale di fratellanza, sia in particolare degli interessi del Sud. Infatti, scrive che “l’unità nazionale fu … la vera forza di salvezza del Mezzogiorno”, avendovi creato “una coscienza civile e politica” che prima mancava, e avendo pure impresso “una spinta nuova di forza economica”. Il sottosviluppo preesisteva all’impresa dei Mille, e aveva la sua causa primaria nella predominanza dei latifondisti e dei loro sodali operativi, cui a suo avviso si aggiungevano la debolezza e l’inadeguatezza culturale della borghesia e di talune professioni intellettuali, così come le condizioni di sfruttamento dei ceti meno abbienti e il sacrificio dei loro bisogni essenziali (tra cui quello di istruzione). D’altro canto, il Nostro riteneva che il modo concreto in cui l’unificazione era stata gestita – ad esempio attraverso certi dazi, trattati commerciali, tariffe doganali protezioniste, regimi dei trasporti, tributi fondiari in ultima analisi dannosi per il Sud – aveva aggravato la situazione di partenza, sacrificando appunto la marina mercantile, l’industria, il sistema creditizio e finanziario dell’ex Regno delle Due Sicilie, per relegare la sua economia al solo ambito agricolo. La bonifica, il latifondo e la riforma agraria restavano peraltro le priorità più urgenti. Sarebbe stato inoltre necessario superare una certa “legislazione uniforme e livellatrice”.

Il sacerdote calatino riuniva in sé tanto la tempra del leader politico quanto la capacità di penetrazione conoscitiva dello storico e dello scienziato sociale. Egli si sentiva in sintonia con Woodrow Wilson anzitutto per ragioni umanitarie, ma forse anche perché il presidente statunitense era uno studioso.

Era stato in nome di una promessa di emancipazione, recante al primo posto la riforma agraria, che i meridionali si erano messi al seguito di Garibaldi. Una promessa che questi però non riuscì mantenere. Al Sud era poi nato uno dei primi movimenti volti a rivendicare la protezione dei lavoratori, quello dei Fasci siciliani. La fine della Grande guerra poteva ora essere la grande occasione per sanare le fratture dell’unificazione: la questione cattolica e quella meridionale. Ecco perché, al di là della menzione apparentemente minimalista, il meridionalismo è uno dei pilastri su cui si regge l’Appello. Nel rivolgersi “a tutti gli uomini moralmente liberi e socialmente evoluti, a quanti nell’amore della patria sanno congiungere il giusto senso dei diritti e degli interessi nazionali con un sano internazionalismo”, Sturzo aveva in mente anche quei meridionali che, come lui stesso aveva fatto, potevano sia opporsi all’arretratezza (e al malaffare), sia lottare per la giustizia sociale.

L’avvento del fascismo fu tollerato da alcuni e propiziato da altri per impedire che si realizzassero quelle grandi trasformazioni che già avevano cominciato con non molto successo a delinearsi sotto Crispi e Giolitti, trasformazioni di cui la strategia contenuta in nuce nell’Appello avrebbe potuto essere uno dei motori. Finita la Seconda guerra mondiale, certe analisi e linee di intervento erano ancora vitali e furono trasfuse nella Costituzione repubblicana, nel riconoscimento delle autonomie regionali e locali, nella riforma agraria (sui cui tratti e limiti non è qui possibile soffermarsi) che finalmente fu adottata, nell’intervento straordinario. Il primo trentennio di storia repubblicana vide il miracolo economico, l’industrializzazione, una congrua riduzione del divario Nord-Sud (che purtroppo terminò dopo lo shock petrolifero e poi non è si è più avuta, se non per brevi periodi e in dimensioni irrisorie), l’effettiva partecipazione della cittadinanza alla vita democratica.

Il Nostro non avrebbe apprezzato, come già faceva capire quando era in vita, l’espansione non giustificata da ragioni oggettive di apparati pubblici pachidermici, né il clientelismo, che pure caratterizzarono certi aspetti della cosiddetta Prima Repubblica e le modalità d’azione di alcuni suoi partiti. Il particolarismo riguardò anche i livelli di governo sub-nazionali, primo tra i quali quello di talune autonomie regionali speciali, di cui pure Sturzo era stato deciso fautore. Certe degenerazioni, le quali avrebbero dovuto vedere la strenua opposizione di chi fosse autenticamente libero e forte, giocarono una parte non piccola nel successivo deterioramento di una politica per il Mezzogiorno che era nata per eliminare il divario e avrebbe potuto riuscirci. Va anche ricordato che una delle leve di tale politica – fino a quanto questa aveva avuto successo – era stata un’agenzia sovraregionale, la Casmez dei primi 25 anni, modellata su un tipico organismo “interventista” del New Deal, la Tennessee Valley Authority. Un’istituzione indipendente analoga sarebbe necessaria anche oggi.

Il Sud odierno ha livelli di benessere incomparabilmente superiori a quelli degli anni ’40.  Tuttavia, il gap con il Centro-Nord è ancora fortissimo. Una parte della visione contenuta nell’Appello si è tradotta in realtà, è riuscita a imprimere una direzione alla storia in quegli anni di ricostruzione. Ma moltissimo resta ancora da fare. Perciò alcuni elementi dell’Appello restano attuali, per il Sud, per il Paese, per un nuovo ordine mondiale.

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